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La dolcezza del lupo

La dolcezza del lupo
incomincia
lì dalle orecchie fiere,
banderuole di brividi
e fronde animali:
io mi metto come antenna
di tempeste,
e le accarezzo disperata,
in cerca di quella musica
lancinante
di dentro,

il tepore della caverna,
lo spazio lunghissimo
degli ululati.
Poi gli spettino le notti
convulse,
e lo accarezzo contropelo
dimenticandomi che una volta
lui
era un ragazzo.
Allora prosegue,
la dolcezza del lupo,
in certi autunni lontani
ché sulla terra quasi
non c’era nessuno:
né lupi
né gufi
né uomini,
soltanto comete,
pellegrini cosmici, anime lungo strade
immense di periferia,
lampioni,
razzi timidi al neon,
filiformi giganti
inchinati alla grandezza
della metropoli.
Già c’era il lupo,
però,
e il ragazzo,
nascosto,
tra rovine e cantieri,
straniero urbano, selvatico,
angelo indesiderato.

Prosegue
la dolcezza del lupo
in quella fronte
pianeggiante immensa
e convessa,
impervia salita di carezze umane
orizzontale pigrizia,
di riceverne.
Acquiescenza animale,
sbavata,
dai contorni lividi
i desideri di carne aggrovigliati,
e le zampe,
quasi mani,
su tese corde,
di addomesticati metalli.

La dolcezza del lupo ristagna
nel suo occhio d’oro
lampeggiante turchese
nottilucente di azzurri
e di stelle:
è allora che si rivela
trasparente,
il lupo.
Non si sa dove finisce,
non si sa dove incomincia,
tenerezza dell’infinito,
come un bambino

che deve sempre
ricominciare a nascere,
e non gli basta una madre
e non gli basta una terra
e non lo vedi dove arriva,
su quale pista innevata
di impronte oscure
e tracciati,
intermittenti piste di carovane e di slitte,
perduto.
Continua,
ostinata,
la dolcezza del lupo
in ognuno dei suoi peli
contrassegnati dal vento,
fieri sudditi di bufere
sensuali tentacoli con cui
lui prosegue la notte,
perché il lupo è la notte,
animale e non animale
essenza angelica contorta
a schiena bassa.
Il nero
gli si addice,
totale,
ed è questa un’altra scheggia
di dolcezza lupoide,
incomparabile riparo
da strazianti colori:
si strugge quel nero
alla base del collo,
robusto,
lì dove la schiena decide
se ergersi oppure
restare bassa,
e l’anima ribellarsi
o sottomettersi,
stanca.
La dolcezza del lupo
è sottomessa,
mansuetudine austera
sfumature solitarie di tenebra
e insieme rivolta,
diniego,
arroccamento senza ritorno.

Ditegli qualcosa,
ditegli
di non scordarsi mai
di quando era ragazzo,
di quando sotto il mantello era

quell’amante taciturno,
mai sazio.
La dolcezza del lupo arriva
dove arriva,
lenta,

la terra.
Perché è lì che il lupo arriva,
anzi fugge,
fino agli estremi confini,
dove il bordo si incurva,
e così la sua schiena,
e così il suo muso,
liberando fiati feroci
di belva
e di mansueto bosco
frusciante,
di funghi e di muschi affratellati,
custoditi dalle penombre,
insieme al fumo,
elegante,
della millesima sigaretta…

Cavalcarlo è impossibile,
raggiungerlo, mai:

la sua tana è un gioiello di
nullità,
di preziosa pochezza,
inaccessibile vuoto
pieno di resti spolpati.
Ha un corto nome,
il lupo,
un nome eroico,
tronco,
sospeso,
che io non so pronunciare,
groviglio di consonanti,
capaci di spezzare i denti,
che tuttavia,
insieme mischiate,

sono di nuovo
languore e dolcezza:
un nome cupo, l
unghissimo,
ululante sotto la lingua,
e tenero di velluti,
che, letto al contrario,
assomiglia
al nome ossuto
della luna.
La dolcezza del lupo la vedi
in controluce alla luna,
quando lungo la coda raggruppa
tutti i crampi del mondo,
il dolore del troppo correre
e forsennato
fuggire.

Come chiamarlo
allora,
il lupo,
e come trattenerlo
dal suo essere lupo,
dal suo essere dolcezza incarnata?
La dolcezza del lupo
è la sua trascendenza,
è il nascosto cuore
del fondo
del suo puntuto orecchio.
Ricolme
di musica le strade
che lui batte ignaro,
volando,
asteroide vivente,
maestoso
di quel suo esser bastonato,
respinto.
Il lupo,
quello che ha di più bello,
se lo tiene stretto,
compresso
in un solo punto
di nero.
Il più bello del lupo,
è all’interno del lupo,
la dolcezza del lupo
è il suo sorriso,
che nessuno
mai
vede.

Roma, 11 novembre 2013