Per ascoltare invece di leggere:
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”disse Massimo D’Azeglio. Benché ufficialmente unita dal 1861, la penisola continua ad essere un mix di popoli differenti per attaccamento a tradizioni, lingue, dialetti, abitudini e perfino ricette di cucina fra loro diversissimi. Non solo: quell’unità faticosamente raggiunta al prezzo del sangue di tanti patrioti non sembra ancora particolarmente sentita in tutto lo stivale neppure oggi e il campanilismo regna sovrano, ancora oggi. Solo la nazionale di calcio miracolosamente unisce e si potrebbe indagare che cosa, nel mistero del calcio, risvegli all’improvviso e per qualche ora il senso di appartenenza a uno stesso paese. Poveri eroi del Risorgimento, povero Garibaldi, povero Cavour, poveri bersaglieri, povere camicie rosse. Hanno lottato per una Coppa Campioni.
Come sappiamo, sul quesito del recente referendum che proponeva il dimezzamento da dieci a cinque anni dei tempi di residenza legale in Italia per gli stranieri maggiorenni per poter richiedere la cittadinanza italiana, si sono espressi solo trenta su cento degli aventi diritto, come del resto per le altre quattro questioni relative alle tutele sul lavoro. Ma rispetto a quelle, la domanda sulle facilitazioni ad acquisire la cittadinanza ha ottenuto molte meno adesioni.
Significa che tra i non molti che sono andati a votare, non molti sarebbero d’accordo sull’ampliamento del diritto di cittadinanza.
Da noi funziona così: è cittadino italiano di diritto alla nascita, chi ha almeno un genitore italiano. (Ius sanguinis).
Poi c’è lo ius soli (riguarda il luogo di nascita, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori): chi è nato in Italia da genitori stranieri può diventare italiano quando diventa maggiorenne.
E poi si diventa italiani per concessione: dopo quattro anni di residenza per i cittadini dell’Unione Europea, dopo dieci anni per gli extra-Unione. Il termine che il referendum avrebbe voluto dimezzare.
Una volta eravamo un paese di emigranti. Oggi siamo un paese di immigrati: questo mosaico di diversità sempre più variegate andrà ad arricchire il paese o invece a slabbrare ancora di più la coesione interna, il senso di unità nazionale? Chi apre le porte vuole davvero incoraggiare l’unità o piuttosto incrementare la dispersione?
Nei secoli passati molti hanno dato la vita per cacciare gli stranieri dominatori. Oggi c’è chi lotta perché gli stranieri entrino in questo paese (spesso da dominatori di fatto delle nostre strade, dei nostri mercati, delle nostre famiglie, come sempre più insostituibile forza lavoro ) con l’alibi della necessità di irrobustire i fili di un tessuto sociale attualmente a trama larghissima.
La grande fortuna dell’impero di Roma fu proprio questa apertura e questa integrazione. Ma chi poteva dirsi effettivamente civis romanus? Chi era libero. Oggi la maggioranza degli immigrati non è libero dalla fame, dal bisogno, dalla povertà. Per questo spesso delinque, disturba, assedia, destabilizza. Accorciare i tempi della sua integrazione come che sia, è un ben calibrato atto sociale (incluse tutte le conseguenze, prevedibili e imprevedibili) o solo una facile elemosina politica? E se tutti avranno diritto di cittadinanza, chi onorerà i doveri?
E a proposito: in che cosa consistono questi doveri? Io me li sono dimenticati. O forse non li ho mai studiati. Come non so a che cosa serve la testa del cilindro nel motore della mia aiutomobile, eppure la guido. Ma forse basta davvero alzarsi in piedi quando parte l’inno nazionale per la finale della Champions League.
11 giugno 2025