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DUE FOTOGRAFIE

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Due fotografie: due papi visti di spalle. Giovanni Paolo II, in una cappellina dei suoi appartamenti nel venerdì santo del 2005 (ancora una settimana e sarebbe morto) e Jorge Mario Bergoglio nella cappellina del Gemelli, la settimana scorsa, pochi giorni prima delle dimissioni dall’ospedale.

Da quando sono bambina provo un misto di tenerezza e compassione nel guardare qualcuno di spalle. Chiunque, visto di spalle, appare indifeso, esposto a un’amichevole pacca a tradimento quanto a un colpo di pistola. Visto di spalle, l’uomo più autorevole e potente della terra tradisce la sua fragilità, senza poter mentire; la curva della schiena, la tensione o la mollezza dei muscoli … tutto rivela di lui più che il volto, che può fingere, mimetizzare un’espressione.

Ho chiesto a un amico sacerdote di aiutarmi a capire perché questi due scatti, così simili nel contesto, nelle pose e nella circostanza della malattia mi appaiono talmente diversi, anzi mi comunicano qualcosa di radicalmente opposto.

Nello scatto della settimana scorsa Jorge Mario Bergoglio è un signore che attende, un po’ speranzoso e un po’ annoiato, il verdetto dei medici: può finalmente essere dimesso? Quanto ancora bisognerà aspettare? Tornerà efficiente? Ai suoi doveri? Insomma è uno di noi. Nella malattia ci assomigliamo tutti, soprattutto se la consideriamo solo una malattia. E del resto, tutto il suo pontificato è stato segnato dal programma di farsi accettare proprio come “uno di noi”. Né più né meno: fregiato dalla più genuina fragilità umana, fiero dei propri limiti, l’opposto di un SuperMan, con buona pace del pittore MauPal che lo ha scherzosamente rappresentato così. Uno che si impegnerà a continuare a governare la chiesa nonostante questi limiti.

Tutt’altra atmosfera nello scatto rubato a Giovanni Paolo II una settimana prima della morte. In quel venerdì santo di vent’anni fa Giovanni Paolo II stava seguendo in televisione, aggrappato alla croce, impossibilitato a partecipare a causa della sua malattia, la Via Crucis al Colosseo, guidata dal Cardinale Ratzinger. Più che aggrappato, era abbracciato alla croce. Oppure la croce abbracciava lui, come mi ha fatto notare l’amico sacerdote. Anche se di lui vediamo solo la nuca e la testa lievemente inclinata sulla spalla destra, veniamo invasi dalla potenza mistica della sua posa, dal carisma del suo sguardo, che immaginiamo sotto gli occhi socchiusi.

Bastava ci guardasse un attimo, per caso, e la potenza della sua fede ci investiva come una tempesta. Anche se non credevamo a niente. Per questo quella fede riusciva e riesce tuttora a raggiungerci anche da una fotografia rubata di spalle. La sofferenza del vecchio papa, ritratta in quello scatto, era cioè precisamente la croce di Cristo.  Non una sua rappresentazione, ma esattamente la croce. E in quanto tale, era governo pieno e attivo. Non “nonostante i limiti”, ma in forza dei limiti. Così come Cristo ha salvato l’umanità con la sua croce, così la sofferenza del vecchio papa contribuiva a guidare la Chiesa anche in quei suoi ultimi giorni di vita. Solo qualche temerario si avventurava infatti a immaginare una rinuncia: è proprio al culmine della sofferenza che il cristiano assomiglia a Cristo.

Per questo lo scatto è così potente e così diverso dall’altro.
Certo, tra allora e oggi c’è il precedente di Benedetto XVI, ritiratosi a causa della debolezza del corpo e dell’animo. E’ possibile che un pontefice si faccia da parte non sentendosi più le forze sufficienti per guidare la Chiesa. Ma questo ci fa interrogare sul ruolo del papa, di ogni papa. E’ solo un governante o “solo” un testimone?

 

27 marzo 2025

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