Per ascoltare invece di leggere:
Inutile rimpiangere i treni di una volta, con gli scompartimenti che erano salottini per sei viaggiatori al massimo, i quali viaggiatori dovevano stare seduti guardandosi reciprocamente, senza tavolini in mezzo, se non con un piccolo appoggino per i due soli posti vicini al finestrino. Si faceva amicizia, ci si scambiavano merende, si leggeva il giornale, si usciva in corridoio a fare due passi o a fumare.
Ogni epoca ha i treni che si merita. I nostri hanno perso la tenerezza un po’ retrò degli scompartimenti come séparés: sono file di posti tutti uguali o quasi, a volte raggruppati a quattro (con due a due che si fronteggiano) e con un tavolino per ogni posto. Democrazia di monadi, ognuno al proprio desk. Ciascuna carrozza vanta una ventina di posti, si ha l’impressione di viaggiare in pullman o piuttosto di essere nell’open space di una redazione o di una borsa valori: non c’è viaggiatore di treno, oggi, che non sia armato, al suo deschetto, di notebook e cellulare. Tutti lavorano freneticamente, è inconcepibile perdere tempo guardando il panorama o fare due chiacchiere col dirimpettaio. Questo avviene più spesso nei treni diretti a Milano, ovviamente. Di rado si registra simile frenesia su treni diretti al Sud Italia. Ma i treni comunque vanno.
Io in treno disegno. Se ho scorci sufficienti, rubo ritratti ai compagni di viaggio. Fin dove mi arriva lo sguardo, ovviamente. Nessuno si accorge, o quasi. Qualcuno sì, e allora mi lancia sguardi tra il preoccupato e il curioso.
Ieri salgo a Roma su una Freccia proveniente da Napoli e diretta a Milano.
Trovo il mio posto 6 A sulla carrozza 4 già occupato. Lo sono anche il posto 6 B e 7A. Questi quattro posti sono di quelli accorpati insieme. Gli occupanti sono tre uomini. Il tipo che occupa il mio posto è già al computer, con vari cavi che gli escono dagli orecchi, ha invaso tutto il piano lavoro anche con un blocco notes e con il cellulare. Classico burocrate in manica di camicia e cravattina, verso i sessanta, tristo e grigio e sudaticcio, ha appeso diligentemente la sua giacca di grisaglia all’apposito gancio, insomma si è sistemato per bene, certo è salito a Napoli. Gli altri due sono piuttosto dei ragazzi. Uno tende già al sonno, jeans e maglietta, l’altro, appena salito con me a Roma, ha l’aria di un nerd addomesticato, tra poco si apparecchierà anche lui con i suoi dispositivi, in posizione esattamente speculare al travet in grisaglia.
Faccio capire che il mio posto sarebbe quello lì. Vicino al finestrino, peraltro. E nella direzione di viaggio, per giunta. Sento tra i denti del mezze maniche un “cheppalle” accompagnato da un micro gesto a manifestare la doverosa intenzione di alzarsi. Realizzo in un secondo che lo spostamento sarebbe faticoso non solo per lui, per il disallestimento di quella sua articolata postazione di lavoro, ma anche per l’altro viaggiatore mezzo addormentato al suo fianco che dovrebbe spostarsi a sua volta per fare uscire l’usurpatore e far entrare me. È il motivo per cui a questo punto mi produco nel più naturale gesto di cortesia che una persona possa offrire, memore di altre volte in cui ero stata io l’indebita occupante del posto di qualcun altro.
-No, rimanga pure.
E mi siedo al 7B. Se fossi un uomo sarei un vero gentiluomo. Di quelli di altri tempi, dei tempi in cui i treni avevano gli scompartimenti come séparés. Ebbene, In uno scompartimento di cinquanta anni fa, quale straordinario evento sarebbe potuto avvenire a questo punto? Che dalla bocca dell’usurpatore, dapprima infastidito dal mio arrivo e poi graziato dall’obbligo di prendere baracca e burattini e doversi comunque spostare, fosse uscito un grazie.
Invece il tipo si è rimesso curvo al suo specchio dei desideri come se io non fossi mai esistita, come se fosse stato obbligatorio da parte mia lasciarlo dove si trovava. Per tutto il viaggio parlando in chat, in inglese, in italiano, rispondendo a rumorosi squilli di telefono, invadendo il piano del suo dirimpettaio, alzando il volume della chiamata in viva voce, curvo a immergere la testa nello schermo del suo portatile, obbligandoci insomma a condividere gli affari suoi sul piano di trading, su profitti e perdite, margini operativi lordi…
Il tutto sempre con uno sguardo talmente compreso nei suoi traffici da apparire privo di orizzonti umani, frustrato, arido e incattivito, seccato a prescindere, con micromimiche di disprezzo o fastidio a ciascuno degli annunci preregistrati di Trenitalia relativi a cinque minuti di ritardo o alla possibilità di collegamenti wi-fi che evidentemente considerava scadenti.
Ovviamente l’ho ritratto. Eh già, come perdere una simile occasione Se qualcuno incontrasse tra Napoli e Roma, tra Napoli e Milano questo misero impiegato-funzionario in grisaglia imbevuto della sua missione di non si sa bene quale decisivo affare, non tarderà a riconoscerlo. Fate attenzione: è un frustrato forse scapolo, che potrebbe suscitare pietà e che invece alla fine regala autentica consolazione. Approfittiamone. In me, nonostante il ribrezzo anche fisico che la sua persona mi trasmetteva, ha provocato la confortante certezza che io non diventerò mai come lui. E neppure lo diventeranno le persone che frequento io. Noi non dimenticheremo mai di dire un grazie. Non a un gesto dovuto e tanto meno a un gesto gratuito.
E i treni vanno.
17 giugno 2025
Antonino D'Anna
Che miserello.