Per ascoltare invece di leggere:
Non è che abbia “frequentato” tanti uomini, mi sento sempre nel posto sbagliato e spesso appaio severa, la mia faccia ha sempre scoraggiato naturalmente approcci maschili (come del resto pure femminili). Però di persone ne ho conosciute e radiografate un’infinità, grazie soprattutto al mio lavoro di intervistatrice, che mi ha permesso di praticare il voyeurismo più sfrenato con in più la benedizione dei miei datori di lavoro: ho potuto guardare senza essere guardata, domandare senza dover rispondere, supremo privilegio, potendomi astenere (fino a un certo punto) da coinvolgimenti personali.
In genere tutti noi amiamo essere osservati, è il momento nel quale ci presentiamo al meglio, si impegniamo a tirare fuori quelli che vorremmo essere, a dispetto di quelli che veramente siamo.
In realtà, nonostante le migliori intenzioni mimetiche, uomini e donne che ho “guardato” hanno finito per offrirmi loro malgrado una panoramica di umanità ferita, frustrata, solitaria, quasi sempre autoreferenziale, logorroica, tristemente narcisistica e bisognosa di conferme. Impossibile resistere.
La crocerossina che è in me ha vacillato, finendo per unificare i vari indizi raccolti in una caratteristica comune a tutti: la fragilità. E per provarne compassione.
Tutti sono (e siamo) fragili. E all’occhio attento della crocerossina di cui sopra non ci sono maschere che tengano. Neppure casi così poco disperati che non stimolino la naturale sfida alla cura pietosa, predisposizione tipicamente femminile.
E così qualche anno fa ho iniziato a prestare spontaneamente aiuto a questi “malati”, risultandomi impossibile non farmi coinvolgere. Ogni donna avverte la fragilità in particolare del maschio e tenta automaticamente di sanarla, forte del fatto che generalmente in ogni donna ogni uomo vede una madre, ovvero una guida.
Ma una madre che cosa fa o dovrebbe fare? Emancipare la sua “creatura”, lavorare per rafforzarla, fino al fatidico momento in cui detta “creatura” sarà dimessa dall’ospedale, ovvero si staccherà dal nido.
Macché. La crocerossina che è in noi (in ciascuna di noi, donne pietose) ambisce alla maternità perenne, alla dipendenza cronica, ovvero al possesso incondizionato del maschio-figlio.
Spesso siamo in buona fede, non ci accorgiamo che l’atto di curare il fragile ( o presunto tale) crea spontaneamente un filo di Arianna, più o meno teso tra noi e lui. Un filo simile a una catena.
Mi sento perciò di invitare tutte le mie colleghe al nobile atto del lasciar perdere. La crocerossina che è in noi va schiacciata come una blatta: il maschio più smarrito, desolato, afflitto, solitario e tenebroso della terra ha diritto di essere lasciato al suo destino. Tutti i fragili del mondo hanno diritto di restare tali. Alcuni riescono spontaneamente a stare alla larga dalle nostre smanie terapeutiche, dalle nostre sfide al salvataggio impossibile, per loro fortuna. Altri ci si impantanano con tutte le scarpe.
E così i rapporti fra sessi opposti sono sempre più spesso improntati a due atteggiamenti a loro volta opposti: o dipendenza/schiavizzazione psicologica o al contrario distanziamento assoluto, eremitismo di genere: soli e sole.
O maschi asserviti a mogli-compagne madri, oppure single ambosessi incapaci di relazionarsi, fieri della propria autonomia. Agli uni non interessa liberarsi, agli altri fa paura uscire dalla tana di se stessi, dalla propria fortezza interiore.
Ho intrapreso campagne di sensibilizzazione fino a poco tempo fa. Oggi rispetto questo mondo di monadi impaurite. Sono una crocerossina in pensione. Al massimo porgo un bicchier d’acqua e immagino di cantare loro qualche inutile ninna nanna che li rassicuri di non doversi allontanare mai dalla dolce morte quotidiana che, per un verso o per l’altro, si sono scelti. Va bene così. Per loro e per me, per tutti noi.
3 ottobre 2024
Antonella Crocetti
Quanta verità
vincenzo
complimenti.