Una donna intelligente ha milioni di nemici: tutti gli uomini stupidi
(Marie Von Ebner Eschenbach)
Per ascoltare invece di leggere:
Certi intellettuali non amano essere definiti così. Disdegnano fieramente il termine. I casi sono due: o pretendono di non rientrare in alcuna categoria “mortale”, oppure hanno motivate riserve circa l’effettivo uso dell’intelletto (inclusa l’ignoranza sulla sua effettiva funzione), al quale uso preferiscono coscientemente l’onanistico gusto per una erudizione orgogliosamente esibita e decisamente autoreferenziale (spiacenti per loro).
Intanto circoscriviamo la categoria. Chi potrebbero essere i cosiddetti intellettuali? Scrittori nati almeno negli anni cinquanta del secolo scorso, spesso da famiglie bilingui, autori di corposi saggi storici o filosofici o politici, prestigiosi docenti universitari, fondatori di importanti istituti, venerati accademici (non solo di Francia), membri onorari di leggendarie istituzioni, destinatari di importanti premi e insigniti di lauree magistrali… e spesso portatori di vistosi, “magistrali” copricapi (Rive Droit Borsalino fino al 21 giugno, Panama Hemingway fino al 21 settembre): uomini che scambiano la testa con un cappello e la dialettica per una sua superflua guarnizione.
Ne ho incontrati di recente due, di questi presunti intellettuali recalcitranti all’uso dell’intelletto. Gente di cultura insomma. Ero al loro servizio nella presentazione del libro di uno di loro. Una graziosa e forse troppo disinvolta signora in mezzo a due monumenti di cultura, di fronte a un pubblico curioso di capire e speranzoso di non annoiarsi.
Il mestiere mi ha insegato che semplificare non significa necessariamente banalizzare. Tra certi presunti intellettuali vige invece la certezza opposta, che si debba esibire il difficile, misurarsi solo con la grevità e la solennità, bardarsene come per una crociata, per conquistare o riaffermare il proprio posto nel mondo, per ribadire la propria indiscussa autorevolezza. Anche a costo di non farsi capire. O meglio: nel dichiarato obiettivo di non farsi capire, concedendo solo qualche trattenuta flessione verso uno stringato humor
Io gioco con le etimologie e la parola “cultura” mi riporta al lavoro nei campi, dove si coltiva ogni specie di pianta per nutrire se stessi e il proprio villaggio, dove ci si sporca mani e piedi, dove ci si abbassa verso fango e terra, si condivide, si distribuisce infine alla comunità i frutti della propria fatica.
I cosiddetti “colti” scelgono invece di essere tali spesso solo per se medesimi, per non sporcarsi le mani e per specchiarsi l’uno nell’altro gareggiando nei rispettivi saperi, escludendo dichiaratamente il volgo ignorante; e a fronte dell’eventuale invito a uscire da questa elitaria e sterile dinamica, in nome casomai di un interrogativo scomodo, di un dubbio di metodo, della sollecitazione a capovolgere solo per un attimo la propria prospettiva, capita perfino che guardino smarriti il proprio interlocutore -o la propria interlocutrice- oppure che fingano di non capire le sue provocazioni, trasformando l’attesa risposta nell’avvio di una non richiesta conferenza che trova comunque il plauso di qualcuno che vorrebbe “conferenzare” al posto loro.
Hanno ragione, questi intellettuali, a disprezzare il termine “intellettuale”. Hanno ragione a disprezzare l’intelletto e magari anche la dialettica, il torto, la ragione e le ragioni degli altri. Contenitori di infiniti, appaganti saperi, hanno diritto a non sapere più chi essere: così pieni di discipline, sono inevitabilmente pieni anche di se stessi. Ma di così tanti se stessi da non trovare più neppure quei gentiluomini che, uscendo da una riunione, ringraziano e salutano sempre una signora.
28 maggio 2025