Quest’anno ho dovuto “salutare” tanti amici, ahimé. E’ normale, andando avanti negli anni, perdere qualcuno per strada, alimentare la malinconia dei distacchi che si fanno fatalmente sempre più numerosi. Tanti funerali, insomma.
Al di là dell’ovvio, qualcosa, di recente, li accomuna un po’ tutti: l’abitudine di chiosare la messa con le testimonianze di amici e parenti. Questi ricordi personali sono in genere inglobati dentro la funzione, precedono la benedizione finale, “ritardano” la stessa incensazione del feretro.
In quei momenti si ascolta davvero di tutto: ricordi teneri e a volte perfino divertiti, racconti commossi pronunciati con il nodo in gola, manifestazioni di sconfinato dolore, poesie e poesiole scritte per l’occasione, a volte discutibili omaggi allo scomparso fino a esibizioni artistiche dedicate. Si oscilla fra il bisogno di esternare il dolore e – bisogna pur ammetterlo- la tentazione di esibire se stessi.
Mi dispiace di non essere credente, e per questo la messa, ogni messa mi consola. Una messa funebre mi ricorda, ogni volta, che la separazione da chi muore è temporanea, perché la vera vita è altrove, e che altrove ci ritroveremo. E’ precisamente quello in cui vorrei credere, ed è proprio quello il sapore che vorrei tenere in bocca alla fine del “sacro pasto”: un sapore di futuro e di consolazione. E invece, dopo questa promessa di eternità arriva il teatrino del dolore da parte di amici e parenti, spesso di dubbio gusto. Che mi riporta indietro, alla disperazione. Beninteso: ognuna di queste testimonianze, quando sincera, ha il suo valore e il suo significato esistenziale in sé, da rispettare comunque. Ma perché “sporcarne” la santa messa?
Perché non ritrovarci tutti – anche persone che magari fra loro non si conoscevano e che da allora in poi potrebbero imparare a conoscersi – a celebrare laicamente il morto, a condividerne l’eredità umana, ciascuno con la sua testimonianza, col suo bagaglio di aneddoti e di ricordi? Facciamolo nel salotto di casa, in un locale riservato o perché no, anche allegramente in trattoria, facciamolo al limite in canonica o in sacrestia, ma lasciamo stare la messa.
So perfettamente perché i parroci hanno ceduto a questa abitudine: per quel bisogno tutto conciliare di aprire le porte al mondo, bisogno che però sta finendo per confondere chiesa e mondo, sacro e profano. Aprendosi al mondo, la chiesa ha finito per mimetizzarsi nel mondo, e soprattutto per diluire lo spirituale nel mondano, per annacquare la Verità in tutt’altro. Spiace dirlo, ma sembra che all’origine di tutto ciò vi sia l’incapacità di testimoniarla, quella Verità, o peggio, il timore di testimoniarla, presumendo che non sia sufficiente a se stessa e sia necessario accompagnarla con “materiali” d’altro tipo (nel caso dei funerali con ricordi personali e compianti pubblici) che, invece di sostenerla nella sua forza intrinseca, finiscono per allontanarla dalle coscienze di chi crede e anche da quelle di chi non crede.
Vorrei pertanto suggerire a Monsignor Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale italiana, di proporre ai sacerdoti e ai parenti del morto, di raccogliersi in ascolto e in preghiera durante il funerale, riservando a un momento successivo alle esequie – magari anche alla presenza del parroco – la collezione dei ricordi e delle testimonianze, lasciando alla solennità della messa l’ultima e più dignitosa parola sul senso della morte e della vita. La Verità non ha bisogno di essere addolcita, soprattutto quando appare amara. La Verità è la Verità, ed è, o dovrebbe essere, l’ultima e più gioiosa parola.
24 luglio 2024
Antonino D'Anna
La Verità dovrebbe essere l’ultima parola, cara Laura, anzi, Parola visto che è di Dio. In realtà i funerali – che come insegna Lina Sotis sono anche facilissimi da gestire dal punto di vista del bon ton perché basta solo stare zitti – sono spesso lo sfogo della propria vanità. La morte non è più morte del morto, ma diventa l’occasione per il gioco dell’io-e-il-morto, io che ho stretto la mano al morto, io che ho annunciato la sua dipartita, io che il morto mi scrisse apprezzando il mio ultimo libro. Il morto diventa lo specchio per le porprie narcisate di bassa lega e viene ucciso una seconda volta, quando l’aspetto deformante del ricordo più o meno acchittato viene calato addosso al defunto. E questo conferma l’antica saggezza calabra secondo la quale ‘a pena è di cui mori, la pena è di chi muore. Verissimo.
lauradmin
Caro Antonino, sarei più clemente verso chi ricorda e “si espone”. Non sempre è vanità, più spesso è sincero sfogo, anche se purtroppo spesso di dubbio gusto. Il problema non è in chi vuole condividere nostalgia e dolore, ma in chi permette certe “sbavature” nella sede secondo meno meno adatta. Perciò ho chiamato in causa la CEI, ma so già quale potrebbe essere la sua linea “di difesa”: la Chiesa deve aprire, non chiudere le sue porte. Bisognerebbe allora intendersi su a chi o a che cosa la Chiesa deve aprire le sue porte: a emozioni umane, pur rispettabilissime, o piuttosto alla Verità, quella che riscatta il mistero della finitudine umana e “fa nuove tutte le cose”…