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Il teatro in Italia è in crisi perché la gente non va più agli spettacoli o la gente non va più agli spettacoli perché il teatro in Italia è in crisi? E il teatro è in crisi perché mancano le idee o mancano le idee perché il teatro (insieme a tutto questo mondo) è in crisi?
Domande che sono circolate l’altro ieri nel corso di un convegno organizzato dal Sindacato Nazionale Autori Drammatici contestualmente alla premiazione del concorso “Palcoscenico d’Autore” dedicato agli autori under 40, che ha visto insignite tre giovani promesse della drammaturgia italiana, Emilia Agnesa, Tamara Ta’any e Angela Pepi.
Patron della manifestazione, insieme allo SNAD col suo segretario generale Renato Giordano, la FUIS, con il suo presidente Natale Rossi.
Sono anni che ascoltiamo lamentazioni praticamente ininterrotte sulla crisi del teatro. Il piagnisteo si sofferma in particolare sulla fatidica mancanza di fondi. Ovvio che la costruzione di uno spettacolo costa e che sostegni istituzionali sono auspicabili e sarebbero più che benvenuti. Testimonierebbero sensibilità politica da parte dei governi all’arricchimento culturale dei loro governati.
Ma parliamoci chiaro: finora, in Italia, questi pochi sostegni sono andati ai soliti noti, alle solite conventicole partiticamente sostenute, che hanno portato sulle scene i soliti spettacoli. Si è andati sul sicuro, per le solite ragioni di cassetta. “Ma basta!”, ha sapientemente esclamato una delle giovani premiate del concorso di cui sopra. E’ una tragicommedia che si replica da troppo tempo, anche e soprattutto sul piano dei contenuti: si finanzia e si propone, in perverso circolo vizioso, quello che la gente sembra accettare e la gente accetta (supinamente, non avendo alternative) quello che viene proposto in quanto finanziato. Credendo per giunta di essersi così arricchita sul piano culturale.
Ma non si può piangere la mancanza di un teatro di qualità solo perché non finanziato. Se il teatro, come durante il convegno ha sostenuto un’autorità del settore, Giovanni Antonucci, è una necessità “archetipica” dell’essere umano (è sempre esistito e esisterà sempre, a dispetto di tutte le fasi critiche della sua storia) non lo si può immiserire riducendolo a una voce di bilancio di una pubblica amministrazione.
Il teatro è lo specchio di una società. E’ la sua anima, la sintesi nturale dei suoi valori. Se una società è stanca, esaurita, autoreferenziale, de-moralizzata (privata di una morale), ridotta a interazioni virtuali, assatanata di denaro, dimentica delle esigenze delle future generazioni, insensibile ai bisogni del prossimo, marchiata da smaccati narcisismi, individualismi, violenze e alienazioni, se alle singole cellule di questa società basta godere di gratificazioni personali, se queste cellule sono solo un ammasso di monadi che si sfiorano senza comunicare, perché mai queste monadi dovrebbero essere attratte dalla famosa stanza a tre pareti per godere insieme della rappresentazione di qualsiasi cosa che non sia la celebrazione della loro stesse, singole vite?
E infatti, i pochi spunti di drammaturgia autoprodotta che circolano tra infiniti sforzi organizzativi ed economici che cosa propongono? Storie minimaliste, di nuovo autoreferenziali, autocelebrazioni degli stessi autori, proposte o in allestimenti anacronisticamente convenzionali oppure pretestuosamente alternativi. O noioso vecchiume o follie gratuite gratuitamente provocatorie. Il poco teatro che oggi cerca stentatamente di sopravvivere o scimmiotta e rimpiange un passato che non può tornare o prova a immaginare un futuro che ancora non può esistere.
Con queste premesse, torna il grido della giovane autrice: “Ma basta!” Basta Pirandello, basta Goldoni, basta Eduardo, basta, dispiace dirlo, anche Ionesco, Beckett, Pinter e Genet…
Il teatro è l’anima di una società. Se la nostra è una società senz’anima, bisogna rassegnarsi ad accettare una società senza teatro. Così come senza poesia, senza pittura, senza musica. A meno che non ci si voglia accontentare di scimmiottamenti e balbettamenti che vagamente ricordino glorie passate o si sforzino di tratteggiare percorsi futuri. Dunque alla fatidica domanda se è nato prima l’uomo o la gallina (se la crisi del teatro è la causa o l’effetto di una crisi più grande) bisognerà rassegnarsi a rispondere che non stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti, ma davvero un cambiamento d’epoca. O bere o affogare. E se bere comporta ingurgitare l’amaro calice, dobbiamo farlo.
L’amarezza comporta l’accettazione che il passato è morto e che tutti noi (teatranti compresi e forse in primis, con la responsabilità che grava in genere sugli artisti o presunti tali ) dobbiamo confrontarci col nuovo, impegnarci col nuovo. Sapendo riconoscerlo, comprenderlo, accettarlo se non addirittura orientarlo, determinarlo. Perché questo nuovo siamo o dovremmo essere noi stessi, il nostro tempo, i nostri figli.
Il teatro, in un mondo divenuto tutto un enorme palcoscenico, con miliardi di primi attori che si contendono i follower, in un mondo fitto di teatrini televisivi e di figuranti, che senso ha rimpiangere il glorioso teatro di Pirandello o di tutti gli altri immensi autori del passato?
Il teatro nuovo, non più solo lamentoso mendicante con la mano tesa, sarà quel teatro capace di leggere i giorni cupi del presente e di districarne con onestà il significato collettivo, se esiste, sarà un teatro inevitabilmente “politico” ( non più solo intimistico, privato, autocelebrativo), anche se non politicizzato, piuttosto capace di traghettarci tutti insieme in uno stato di coscienza superiore, in nome di valori condivisi.
Ma abbiamo ancora valori condivisi? La domanda torna ad essere questa. E se la risposta è “no, non ne abbiamo”, il pianto dovrà essere su questo, non sulla mancanza di fondi o investimenti. Non nascondiamoci dietro un dito: coperti d’oro, capaci di montare fantasmagoriche scenografie, di coinvolgere star internazionali… sapremmo davvero riportare spettatori a teatro, raccontare loro qualcosa di nuovo, anzi di “eterno”? Forse per un attimo, per un effimero successo di qualche giorno potremmo anche riempire le sale. E poi?
Il problema dunque non è la mancanza di denaro. Il problema è la mancanza di valori comuni. Almeno questo dolore però dovremo poterlo condividere. Magari anche portandolo in scena. Forse dovremmo partire semplicemente da qui. Chissà se il dramma attuale non diventerebbe un successo.
18 dicembre 2024