Per ascoltare invece di leggere:
C’era una volta un papa, molto amato, che detestava i simboli. Nonostante la chiesa cattolica sia “incarnata” in simboli, papa Francesco ha costruito il suo pontificato nella sistematica decostruzione dei simboli. Via la croce d’oro, via la residenza papale, via le pantofole rosse pontificali, via l’auto di lusso, via la mozzetta. C’è mancato poco che decostruisse anche Gesù Cristo e non sono pochi quelli che sostengono che lo abbia fatto o stesse per farlo.
Ma eliminare un simbolo comporta automaticamente crearne un altro. Solo un esempio: le famose scarpe “da povero”. Nere, sbucciate in punta, un po’ impolverate, sono state oggetto di infiniti dettagli fotografici quando lui era in vita e anche quando era nella bara: “il magistero delle scarpe da povero” ha creato di fatto un contro-simbolo.
Impossibile che un così elementare meccanismo sia sfuggito al pontefice e al suo entourage e non sia stato intenzionalmente amplificato. Ma il fasto sostituito dalla semplicità ha di fatto costruito il fasto della semplicità. Questo sì, forse è sfuggito. Una istituzione secolare e universalmente diffusa come la Chiesa cattolica non può fare a meno dei propri simboli, e cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia: alla fine è la Chiesa stessa il simbolo. E il pontefice non può non esserlo e non rimanere tale a sua volta, anche se si presentasse nudo e scalzo.
Ho un’amica dichiaratamente non credente. Mi correggo: puntigliosamente, rabbiosamente non credente. Gli atei militanti sono i più esposti al sospetto di essere dei credenti falliti, o di essere stati violentemente delusi in passato dal comportamento di qualche rappresentante di Dio in terra, per cui si vendicano con accanite campagne per dimostrare la non-esistenza di Dio.
La mia amica, per esempio, si guarda bene dal pronunciare “Buon Natale”, nonostante questo augurio si sia ormai equiparato, nel mese di dicembre, a un saluto universale, quasi ugualmente condiviso da ebrei, musulmani, animisti e indù. Certo questo non è un bene, ma è un fatto. Lei, fiscale, a chi le augura buon Natale sottolinea ogni volta di non poter ricambiare perché …perché …perché… Scusa non richiesta è comunque sospetta. Dichiara poi quasi fieramente di non sapere quando cade la Pasqua, di ignorare chi è il santo protettore dei falegnami o dei portieri, dove si trova il santuario del Divino Amore etc etc (insomma preferisce presentarsi come ignorante piuttosto che passare anche solo vagamente infarinata di religione) e se per caso qualcuno festeggia il compleanno a dicembre e lei carinamente porge un regalo, tiene a sottolineare che si tratta di un regalo di compleanno, bada bene, e non di Natale. Molto affezionata ai suoi genitori, non manca di andarli a trovare spesso, perfino a Natale e Pasqua, condividendo i pranzi di festa. Ma sempre con la specifica: perché per loro sono date significative, non certo per lei. Lei arriva al massimo a celebrare la festa della mamma, per avere un’occasione in più di andarla a trovare – e, con qualche riserva, la festa del papà, vista la parentela di questa con la celebrazione cattolica di san Giuseppe.
Anche la mia amica mi pare abbia sostituito una fede con un’altra: vogliamo chiamarla “la contro-fede dell’ateismo sbandierato”? Anche in questo caso mi pare che la sostanza non cambi. A qualcosa abbiamo bisogno di legare i nostri bisogni, e sempre di simboli si tratta. Se per qualcuno la croce non ha senso, diventa massimamente sensato il vuoto. C’è chi si inginocchia e chi rimane fieramente in piedi, chi augura buon Natale e chi buon giorno. Siamo comunque imbevuti di significati. Condivisi oppure no. Siamo noi i significati e anche i significanti, però attenzione: portiamo in giro quello che siamo, quello che vorremmo essere, ma anche quello che non ci accorgiamo di essere.
12 maggio 2025