Per ascoltare invece di leggere:
Un film brutto, sgangherato, difficile, che voleva essere disturbante e “divisivo”, dicono i sostenitori del regista. Ci è riuscito alla perfezione. Ottimo escamotage, tra l’altro, per passare indenni attraverso i colpi di qualsiasi stroncatura: mettere le mani avanti. Come a dire: se non vi piace e non lo avete capito abbiamo fatto centro, volevamo proprio rimanere incomprensibili. Eh, ma non ce la si può mica cavare così! E’ finita l’era delle opere criptiche e degli ermetismi da intellettuali boriosi. Già il libro che ha ispirato il film richiede un certo stomaco per essere digerito, ma possiamo capirlo, perché è opera travagliata di un esponente di quella beat generation che negli anni cinquanta-sessanta del secolo scorso aveva i suoi problemi a voler narrare quel contesto di trasgressione che per l’epoca sembrava l’anticamera di chissà quale rivoluzione di pensiero: sesso, droghe e rock’n roll. Tanto è vero che l’autore (William Borroughs) attese oltre trent’anni per darlo alle stampe.
Oggi che possiamo parlare di tutto e che in nome del politically correct non ci stupisce praticamente più niente, non ha proprio senso arroccarsi nella dichiarazione previa di volere non farsi capire. O di dare per scontato di avere elaborato un prodotto criptico. E anche se il messaggio è l’impossibilità di comunicare e di accettarsi, questa impossibilità va comunque comunicata. O meglio condivisa, perlomeno in nome di un’emozione.
Queer non l’ho capito ma soprattutto non mi ha commossa.
Salvo un solo particolare, che potrebbe essere sfuggito alla maggioranza degli spettatori. E forse anche al regista. E solo per riconoscenza verso questo particolare ne scrivo qui.
A premessa: Queer è la storia di un patetico omosessuale di mezza età fuggito dagli Usa in Messico e dedito a vari vizi, che si innamora ossessivamente di un giovane bellissimo e sfuggente. Riesce ad attrarlo in qualche modo a sé fino a farsi accompagnare in un trip nella jungla sudamericana alla ricerca di una pianta allucinogena che dovrebbe permettere la telepatia. I due la trovano, la sperimentano entrambi su di sé fino a vivere una sconvolgente esperienza di fusione psicofisica. Esattamente ciò che il più anziano bramava: entrare in connessione profonda con l’oggetto del suo amore, ovvero nel fondo dell’animo dell’altro, ( l’Altro) che è inafferrabile per definizione, che è distante comunque, che comunque ci sfugge.
Al termine della sfiancante esperienza allucinogena nella jungla i due crollano sfiniti, ma prima di chiudere gli occhi al più giovane esce una lacrima da sotto una palpebra. In un film così strigliato non voglio credere sia una lacrima casuale. L’indomani il giovane fuggirà sconvolto dall’esperienza, e il suo povero amante non lo troverà più. Senza neppure avere avuto la soddisfazione di notare quella lacrima, quella commozione appena trattenuta…
Ecco, noi invece l’abbiamo notata: un film salvato da una lacrima. Insomma, se non in sala, almeno nella storia, nella pellicola, qualcuno si è commosso. Il giovane incatturabile, l’oggetto di un amore così totalizzante, esclusivo e ossessivo viene in qualche modo toccato dal dubbio dell’amore e sull’amore, tanto da scegliere la fuga. La verità su se stessi infatti può essere accecante: capita a molti (a molti di noi) di doversi voltare dall’altra parte. Il sentimento colpisce e neppure il più coriaceo resiste. “Amor ch’ a nullo amato amar perdona”.
Io Guadagnino lo perdono per queste due ore di noia mortale solo per quella lacrima. Il mondo sarà salvato dalle lacrime. Se ce le permetteremo. Se ci permetteremo ancora di commuoverci. E lo perdono anche per avere ingaggiato un attore splendido come Daniel Craig e un giovane altrettanto promettente (oltre che soavissimo) come Drew Starkey.
20 aprile 2025