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IL VIZIETTO DEL POETA

Agli attori il narcisismo lo si perdona, è incluso nel prezzo. Godi di un bello spettacolo e lo sai che alla fine devi applaudire. Sai che per molti di loro la cosa più importante non è lo spettacolo in sé, non c’entra niente l’orgoglio di portare in scena uno splendido dramma, di rendere omaggio a un grande autore, la fatica di memorizzare la parte, lo sforzo di interiorizzare il personaggio, di armonizzarsi con il resto della compagnia, di sopportare le rivalità, di accettare le indicazioni del regista. Tutto questo è niente, per l’attore, a fronte del godimento degli applausi finali, del sentirsi dire bravo. Solo pochi minuti che compensano un lavoro di mesi.

D’altra parte, nell’esporsi su un palco davanti a un pubblico è concentrata tutta la sapienza professionale, la specificità, la tecnica nonché il coraggio dell’attore. Esibizionista per contratto, eroe del nostro tempo di relativismo, ci conferma di appartenere alla categoria professionale più sincera della nostra società: l’unica che non finge di dire il vero, ma dichiara apertamente di rappresentare il falso. Tutto ciò per noi pubblico val bene un applauso, inclusa la sopportazione di varie gradazioni di divismo. Fingendo, l’attore è il più sincero di tutti noi. E’ per questo che applaudiamo, quando applaudiamo.

Ma nei nostri tempi circola anche un altro divismo narcisistico che si giustifica molto meno: quello del poeta (o sedicente tale).

Io non riesco a immaginare come si ponessero di fronte ai loro contemporanei Omero o Saffo, Catullo o Petrarca, Shakespeare o Blok. Vedo come si pongono i poeti o sedicenti poeti di oggi di fronte di noi, loro contemporanei, già storditi da vari gradi di inflazione mediatica. Il poeta dell’era mediatica è sempre più avido di esibire se stesso senza pudore, conforme alla perversa logica dell’apparire, spesso ignaro di inscenare un misero teatrino autocelebrativo, nella certezza di condividere chissà quale verità rivelata grazie ai suoi mirabili versi. E ciò vale, purtroppo, sia per i poeti “certificati”, sia per il sottobosco dei versificatori della domenica, accomunati dalla smania di essere applauditi, esattamente come attori sulla scena. Ma mentre gli attori sembrano veri nel loro fare per finta, i poeti appaiono finti nel loro prendersi troppo sul serio.

Da che cosa deriva questa perversione della poesia contemporanea? Questo suo grottesco contagio con i riflettori? Personalmente, ho maturato da anni l’esigenza di un consumo monastico di poesia, da intendersi cioè come preghiera muta, trasversale, soprattutto scorporata e sempre più silenziosa: la poesia indipendentemente dai poeti. Magari fosse possibile dimenticare tutte quelle loro umane debolezze che infiacchiscono, quando c’è, la forza della parola.

Non viviamo più i tempi dei trovieri, quando i poeti erano narratori pubblici di fatti storici condivisi, custodi dell’epos di un popolo. In quel caso il loro  ruolo pubblico esigeva massima visibilità e riconoscibilità. Oggi, nel tempo dell’individualismo, dell’alienazione e della solitudine, se al poeta resta una funzione dovrebbe essere quella di sacerdote dell’essenza. I preti sono tenuti al celibato? I poeti dovrebbero essere tenuti all’invisibilità, al silenzio. Che parlino, se parlano, i loro versi. Del resto le nuove tecnologie ci aiutano a diffondere democraticamente e universalmente qualsiasi messaggio in universi virtuali, popolati da avatar, cloni o ologrammi che, nonostante le resistenze e le diffidenze di molti, ci avvicinano prepotentemente appunto alla sostanza del messaggio e a niente altro.

Perché invece, se apprezzo una vibrazione di poesia, devo essere costretta a sorbirmi anche l’ingiustificato narcisismo del suo autore, il patetico teatrino di una autolettura spesso enfatica, stonata, brutta copia degli exploit televisivi di Giuseppe Ungaretti? Perché devo lasciar contaminare l’eco dei suoi bei versi (se sono belli) al suo alito cattivo, al suo brutto aspetto, alla sgradevole forma del suo naso, alla sua calvizie, al suo adipe? Autoreferenziali, incapaci di una conversazione che non abbia al centro la celebrazione dei loro successi editoriali o delle loro gesta nel panorama culturale, delle loro dimestichezze con Pasolini, Merini o la Spaziani o delle loro personalissime emozioni, i poeti o le poetesse (peggio mi sento) contemporanei sono le persone meno pudiche, meno eleganti e meno poetiche che io conosca. Onanisti della parola, spesso refrattari all’ascolto del prossimo, godono di parlare a se stessi, dimentichi di quella fondamentale e discreta funzione di mediazione e di servizio che la poesia dovrebbe avere nell’interpretazione e nella trasformazione del reale.

Dunque non smettiamo di ricercare la poesia, ma perfavore, facciamo tacere i poeti. Nel loro interesse. Passeranno più elegantemente alla storia.

 

27 aprile 2022