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L’ESTINZIONE DEI MAESTRI (dedicato a Francesco Valentini)

Qualche tempo fa chiesi i miei figli, che oggi hanno rispettivamente poco più e poco meno di trent’anni, e che all’epoca avevano ormai terminato o stavano per terminare il loro percorso di studi, quanti maestri avessero incontrato nella loro vita. Ancora oggi provo pena per quello smarrimento disorientato degli sguardi nel quale lessi l’inevitabile risposta senza parole: nessuno. Tra tanti professori, a scuola e all’università, neppure un maestro.

Assistetti qualche tempo fa a una microscenetta familiare: un amico mi presentò sua moglie qualificandola come maestra elementare. La giovane donna corresse un po’ piccata: non sono una maestra, sono una docente…e bla e bla e bla, sfoderano titoli e abilitazioni superiori. Non so che altro aggiunse per migliorare ai miei occhi la qualifica presuntamente riduttiva che aveva ricevuto dal marito.

Forse l’espressione “scuola elementare” fa pensare a una scuola semplicissima, fatta appunto di tre-quattro elementi: leggere, scrivere, far di conto. Ma se sembra semplicissima per chi deve insegnare poche, basilari discipline, certo non lo è per chi deve apprenderle. E in definitiva, non dovrebbe ritenersi semplicissima e dunque svilente neppure per chi le impartisce. Di qui la responsabilità enrome del maestro elementare, il suo gigantesco ruolo nella formazione primaria di ciascuno di noi. In Germania la scuola elementare si chiama GrundSchule: scuola dei fondamenti. Dunque scuola fondamentale in due sensi: che riguarda le discipline di base e che comporta un’importanza notevole. Forse là i maestri elementari, i GrundLehrere, sono più  apprezzati che da noi, non hanno bisogno di precisare di essere “docenti” più o meno qualificati e abilitati.

Solo questione linguisitica?

Mi sono rivolta piu volte la stessa domanda che ho rivolto ai miei figli: quanti veri maestri ho incontrato nella mia vita? Sono in vantaggio su di loro di una generazione, dunque qualcuno ne ho incontrato, ma non necessariamente dentro la scuola o l’università.

Ma che cosa vuol dire essere maestri e perché è sempre più difficile trovarne in giro? Da che deriva la loro progressiva socmparsa eC che cosa rende qualcuno un maestro, al pari dei grandi saggi dell’antichità, come Socrate o Seneca o Tommaso d’Aquino? Io non so rispondere a questa domanda e credo che proprio nella mancata risposta sia racchiusa la migliore essenza della magistralità. Ogni maestro ha qualcosa di suo da insegnare, che trasmette nel modo suo precipuo, personale e irripetibile. La lezione del maestro non può essere mai replicata uguale a se stessa e il vero nucleo del suo insegnamento in fondo resta un mistero intrasferibile, che può cioè solo essere appreso: non si limita a scendere dall’alto, ma invita a salire dal basso, richiede cioè la partecipazione attiva dell’allievo. Il maestro è tale non tanto in forza di ciò che insegna, ma in forza del fatto che accende il coinvolgimento dell’allievo e la sua libertà di pensiero, richiedendogli una risposta che poi si trasformerà in domanda, o meglio nella disposizione a fare domande.  Alle quali a sua volta il maestro risponderà con l’invito a porre sempre altre domande.

Insegnare vuol dire segnare dentro, qualcosa come in-cidere, lasciare segni in profondità. Ma il nostro tempo preferisce la superficie rassicurante di contro all’immersione inqueitante nell’essenza delle cose. Preferisce le soluzioni alle questioni, le certezze al dubbio, l’autocompiacimento narcisistico al senso critico e autocritico: di qui la penosa estinzione di un ruolo umile quanto solenne e a volte anche scomodo.

Vorrei perciò invitare ciascuno di noi alla ricerca di esemplari superstiti di questa preziosa categoria umana. Non stupiamoci di trovarli nei luoghi più imprevedibili. Al bancone di un bar di periferia, alla guida di un autobus, in una bottega artigiana, a pescare in riva a un lago o a coltivare pomodori e peperoni in un piccolo orto… La cosddetta accademia della vita ha le sue aule ovunque disperse.

 

6 luglio 2022

 

Nell’immagine: Anonimo (forse Pieter Paul Rubens), Autoritratto di Rubens e van Dyck, 1615 circa. Al Louvre