Di lei è già stato detto tutto: primogenita di uno degli statisti più rimpianti della storia italiana, che fu campione di coraggio, moralità, e intelligenza politica e che lei poté seguire da vicino. Novantanove anni di partecipazione attiva alla vita pubblica, dai giorni della guerra (staffetta partigiana, attiva nell’aiuto agli ebrei in transito su territorio italiano), agli impegni nel dopoguerra come segretaria del padre divenuto primo ministro, sua accompagnatrice negli Stati Uniti, testimone di innumerevoli incontri con personalità internazionali, quindi custode delle memorie paterne e presidente della Fondazione De Gasperi, infine autrice di qualificati articoli sulla politica italiana e non solo.
Venerdì primo aprile ho partecipato a Roma ai funerali solenni di Maria Romana De Gasperi, presente anche Sergio Mattarella. Il giorno prima avevo partecipato ad altri funerali, quelli di Marisa, cugina acquisita, anche lei piuttosto avanti con gli anni. Funerali solenni anche quelli, anche senza presidenti e cardinali, perché alla fine tutti i funerali lo sono, perché ogni morte è solenne, è il riassunto di una vita.
Lontanissime tra loro Maria Romana e Marisa. Figlia di statista e lucidissima interprete del nostro tempo la prima, donna semplice, ex impiegata e vittima di un ictus la seconda, privata nelle ultime settimane della capacità di parlare. Da una parte una attiva vita pubblica, dall’altra un sereno ritiro in campagna tra nipoti e pronipoti. Di qua passione politica, di là passione per l’orticello. Eppure, qualcosa accomuna queste due donne. Da ragazza , quando portava i messaggi ai partigiani, Maria Romana li nascondeva tra cavoli e insalate nel cesto della bicicletta con cui volava per le vie di Roma, come ha ricordato all’omelia il cardinale Giovanni Battista Re. Marisa ha nascosto tutta la vita angosce e preoccupazioni dietro un sorriso. Forse solo noi donne siamo capaci di abbinare con tanta disinvoltura tragedia e leggerezza.
Io ho incontrato Maria Romana nell’autunno scorso, le avevo chiesto di fare “un passo indietro” nella storia, un ricordo di don Sturzo, che lei conobbe da vicino quando era segretaria del padre, come accadde per tanti altri personaggi importanti. Mi aveva introdotto suo figlio Paolo, amico di famiglia. L’avevo già conosciuta anni prima, in occasione di un’altra intervista per la Radio Vaticana, quando venne personalmente in studio. Fra quel primo incontro e l’ultimo lei aveva dovuto affrontare due drammi personali: la perdita del marito e di un figlio (lei che già aveva dovuto affrontare la morte del primogenito, anni prima). In questo incontro più recente mi riceveva alla sua scrivania di uno studio domestico molto luminoso, con un grande ritratto del padre alla sua sinistra, circondata da tante foto di famiglia. Impeccabile, cordiale, elegante, le unghie smaltate, i gioielli “giusti”, neppure un capello fuori posto, un’ombra di rossetto, la voce fonda e pacata, quel tanto di distacco che ne facevano una signora, una testimone, una persona non comune, e non solo per i suoi –allora- quasi 99. Faccio un passo indietro e mi chiedo adesso in che cosa risiedesse la sua femminilità irresistibile, la sobrietà del suo fascino. Forse nell’essere insieme ancora prepotentemente figlia ( di suo padre, ma anche del suo tempo ) e per questo ancora e sempre madre, responsabile della discendenza, capace di interrogarsi sul presente, ancora serena dopo infiniti guadi di dolore. Trovarmi di fronte a questo equilibrio consapevole, che non tradiva nulla di gratuitamente ereditato, ma che al contrario aveva il sapore di una conquista faticosa e quotidiana, mi ha fatto sentire misera, agghindata di un’umanità posticcia e casuale.
La storia siamo noi, dice qualcuno. Non sempre, non tutti. Ci sono donne, fiere o semplicissime custodi delle proprie radici, e insieme sostegni aggraziati e incrollabili dei propri germogli, che lo sono di più, a pieno titolo, anche e proprio nell’anonimato, anche restando nell’ombra o un passo indietro rispetto a uomini che invece saranno ricordati nei secoli.
3 aprile 2022