Close

ABITARE L’INCERTO

E’ il tema di un seminario organizzato da SFERA (Società Filosofica Europea di Ricerca e Alti Studi) venerdì 20 gennaio alla Galleria Nuova Pesa di via del Corso a Roma, intorno al libro L’esercizio della filosofia- Per una vitale incertezza di Lucio Saviani. Una ventina di relatori hanno parlato dell’incertezza come segno distintivo dei nostri tempi. Questo il contenuto del mio intervento, che ho ampiamente modificato dopo avere ascoltato gli appassionati interventi dei relatori che hanno parlato prima di me.

 

Nella sua opera Il Perturbante, Sigmund Freud parla della casa – del posto dove si ABITA-  non solo come luogo di tranquillità e riparo, ma anche come spazio inquietante (perturbante appunto) , per il semplice fatto che in casa si nasconde tutto ciò che non si vuole mostrare al resto del mondo, ciò che non si può esprimere al resto del mondo, e di cui magari ci si vergogna. Paradossalmente dentro casa saremmo più allo scoperto, maggiormente esposti ai nostri fantasmi e alle nostre manie.

Ma è il fatto stesso di esistere che ci espone.  Martin Heidegger nella Lettera sull’umanesimo infatti ci spiega l’esistenza non come semplice possibilità di … esistere appunto, ma come uno “stare fuori” di fronte all’Essere. Nudità definitiva. Ciò che esiste è vulnerabile per definizione, è esposto comunque a tutti i venti. Del mondo, dell’inconscio, del mistero… Della materia oscura. Del non essere.

Sarà per questo che siamo così tanto smaniosi di viaggiare, di disertare le nostre case?  Forse perché sentiamo che le case non ci proteggono più? Perché dovunque andremo ad abitare finiremo per abitare comunque nell’ ansia che le nostre tenebre prima o poi ci assalgano? Che dagli angoli bui o della nostra casa o da sotto i tappeti spunti fuori la sporcizia e la muffa che credevamo di avere nascosto tanto bene? Che dagli armadi escano eserciti di scheletri?  Finiremo insomma per abitare comunque nell’inquietudine, nell’incertezza…? Anzi, sottigliezza tutta filosofica: finiremo per abitare l’incertezza.

Nella sua versione transitiva il verbo “abitare” suona tremendamente più definitivo, più intimo, perfino con una sfumatura un po’ snob. Genericamente io abito in un monolocale, in un attico, in una stamberga, in un hotel . Ma se abito un monolocale, un attico, una stamberga, un hotel, in qualche modo io mi identifico maggiormente con quel luogo. Verbo transitivo. Transitare: non transito in quel luogo come passeggero ma “sopra” quel luogo: divento quel luogo. Il genius loci sono io. Quel luogo sono io

Habitare. Da habere. Che sarebbe come un avere più intensamente. Più continuativamente.

Abitare. Abitudine. Abito. tutto ciò che siamo soliti AVERE con noi. Che ci definisce, Che ci permette di essere chi siamo. Quando i filosofi (ma anche i sociologi, gli psicologi, perfino i preti o i papi)  stabiliscono una distanza abissale tra essere e avere, preferendo il primo e disprezzando il secondo, forse fingono di dimenticare che è l’avere a definire  precisamente il nostro essere. Giustamente Lucio Saviani nel suo libro L’esercizio della filosofia, distingue le cose esperbili, che conosciamo coi sensi, da quelle nascoste, invisibili. Le prime le lasciamo cadere, le seconde le portiamo sempre con noi, le abbiamo sempre addosso. Stando così le cose, emancipiamo dunque il verbo “avere, possedere” dal peccato originale della proprietà. “ Avere”, “habere” è anche e soprattutto vedersela con ciò che non si vede. Esattamente come  “abitare” comporta non poter disporre più di un riparo: la casa diventa instabile e trasparente. Perché dovunque abitiamo, abitiamo l’incerto. E’ proprio questo il dramma del nostro tempo.

Ma che cosa significa incertezza? Saviani heideggerianamente va all’etimologia e ci ricorda che “incertezza” si definisce solo in negativo, grazie al suo contrario ( certezza, certo). Il che è di per sé un indizio su quanto sia… incerto l’incerto se non dispone neppure di una etimologia “autonoma”.  “Incerto” sta proprio nel limbo. “Incerto” è un limbo. “Certo” è ciò che è stato separato e scelto, esito di una cernita. (Participio passato di “cernere”) Dunque si declina sempre al passato. Solo il passato infatti  è certo. L’incertezza è per definizione futura, o meglio riguarda il futuro. Abitare l’incertezza significa allora tollerare il dubbio, non aderire a ciò che appare certo e che presumiamo di sapere: dunque abitare l’incertezza significa essere filosofi, proiettarsi verso il domani, verso il felice esito della ricerca.

Ma se l’incertezza si coniuga sempre al futuro, se l’incertezza è dunque dalla parte dell’evoluzione, in quanto genera la filosofia – è la tesi di Saviani-   io vorrei chiamare in causa una parola che fino a qualche tempo fa sapeva molto di futuro, e che invece negli ultimi decenni è passata fuori moda: la parola “modernità”, che a furia di celebrare il futuro ha finito per diventare passata. Oggi non c’è niente di più antico della parola “moderno”.

Il sociologo tedesco Ulrich Beck nel suo testo La società del rischio. Verso una seconda modernità ci spiega come la cosiddetta modernità si sia consumata, abbia fatto il suo tempo. Abbiamo infatti sentito parlare di morte dell’arte, di fine della storia, addirittura di trans-umanesimo … di implosione del capitalismo e insieme del socialismo reale… Di autoconsumazione della società industriale, di fine dei tempi.

Eccoci dunque in un altro capitolo della storia. In un altro tempo. Dice Bergoglio: non siamo in un epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca. Switch importante. Anche il nuovo, dice Ulrich Beck, avanza oggi in modo nuovo. C’è un mutamento del mutamento e  non è facile essere pronti a decifrarlo, nonostante tutta la nostra disponibilità filosofica a tollerare l’incerto, anzi a perseguirlo come metodo di indagine, ad abitarlo. Insomma non possiamo pretendere che le cose continuino a mutare sempre allo stesso modo, a turbarci sempre allo stesso modo, secondo l’antica categoria del taumazein. Se un tempo la filosofia era generata da quello stupore terrifico, oggi sembra essere entrato in gioco qualcos’altro, che forse renderà incerta perfino la vitale incertezza filosofica. Che in ultima analisi renderà inattuale perfino la filosofia. C’è un concentrato di incertezza che investe la società globalizzata,  una dispersione di punti di riferimento che sembra paralizzare il pensiero, invece che incoraggiarlo. Allo stupore terrifico e inquietante ma produttivo di un tempo sembra oggi sostituirsi infatti l’attonimento , il disorientamento, la perdita del luogo e della direzione, la perdita del reale. Difatti, grazie al sopravanzare del mondo virtuale abitiamo ovunque e da nessuna parte: società liquida, non luoghi, iperoggetti, non oggetti, intelligenze artificiali, teoria della complessità: i confini si fanno incerti fra il certo e l’incerto…
Oltre a ciò, l’incremento produttivo industriale ha generato forze distruttive, ha prodotto pericoli  globali come pandemie, scorie radioattive, alienazione, degrado ambientale… : nuovi rischi invisibili, incalcolabili, apparentemente irreali, temibili e tutti “del futuro”, che incombono da lontano, ma per l’appunto incombono, e che soprattutto restano connessi con sistemi di cui non possiamo fare più a meno. Rischi che stanno nascosti nei ns smartphone (che abbiamo sempre addosso).

Se il fumo fa male, la realtà è che non possiamo più smettere di fumare. E questo fumo ci inibisce la speranza, il progetto, soprattutto la rivolta (la capacità di dire no) : non abbiamo nulla più da rivendicare contro nessuno se non contro noi stessi. (I nuovi rischi sono talmente “democratici” che non risparmieranno neppure i cattivi, ammesso che esistano ancora, che noi si riesca ancora a individuarli).

E così l’accettazione filosofica dell’incertezza come “semplice” premessa teoretica, valida fino a prima di Hiroshima e Nagasaki, si trova oggi a confrontarsi con un ‘incertezza inedita, non più produttiva, ma al contrario paralizzante. Il “nuovo del nuovo” è un gradino più su nella percezione del nostro limite. (Non possiamo più fare a meno della tecnologia che da un lato ci gratifica dall’altro ci uccide. Nello stesso tempo ci folgora come sempre più profetico il principio di indeterminatezza di Heisenberg, filiazione diretta della fisica quantistica. Oltre un certo limite nell’osservazione della materia, l’atto stesso di osservare altera l’esito dell’osservazione. Quanto più andiamo avanti nell’esplorazione della realtà anche grazie a dispositivi sempre più perfezionati, tanto più ci si erge davanti il muro del mistro.

E’ un salto di qualità nella percezione della finitudine umana, perfezionatasi proprio grazie alle perversioni , agli eccessi recenti della velocizzazione della società industriale e della tecnologia. (Dalla ruota in poi fino ai giorni nostri.) Incertezza vitale? No, incertezza mortifera.

E poi arrivò il cigno nero. Nero, guarda caso. Il cigno nero chiude il cerchio della vitale incertezza filosofica. Il cigno nero – Come l’improbabile governa la nostra vita  è un’idea di Nassim Nicholas Taleb , matematico e filosofo libanese. Il cigno nero è quello che proprio non possiamo prevedere, che ci sconvolge, visto che normalmente i cigni sono bianchi.

Nassim Nicolas Taleb insegna scienze dell’incertezza. Un ossimoro che avrebbe fatto morire dal ridere Socrate, Platone, Aristotele. E Anche Saviani . O forse no, se diamo per buona la tesi  secondo cui l’incertezza è vitale per la filosofia: l’incertezza anzi è filosofia. Dunque la stessa scienza dell’incertezza va a sovrapporsi alla filosofia.

Nel suo saggio, Taleb trova un altro nome dell’incertezza, e la chiama caso. Nessuno sa come stanno le cose. Ci illudiamo solo di sapere, di prevedere. Creiamo una certezza fittizia su realtà che per definizione sono incerte. E racconta la storia tragicomica del tacchino. (Per restare nell’ambito di creature alate, pennute.) Pensate a un tacchino cui vene dato da mangiare tutti i giorni. A ogni pasto si consolida nell’animale la convinzione che una regola generale della vita sia quella di essere sfamati ogni giorno da umani amichevoli, generosi, che pensano al suo interesse. Poi però, alla vigilia di Natale, al tacchino succede una cosa del tutto imprevista. Che lo costringe a rivedere tutte le sue idee.

Conclusione: per vivere nel mondo di oggi è necessaria molta più immaginazione di quella di cui disponiamo, nel bene e nel male. Molta più… vitale incertezza. Manchiamo di immaginazione e la reprimiamo negli altri: non accettiamo – per comodità – che il mondo sia dominato da ciò che è estremo, semisconosciuto  e molto improbabile, preferendo continuare a occuparci di aspetti secondari perché sono comodi nella loro ripetitività.

Soluzione proposta da Taleb? Dettare noi le regole del gioco: non correre dietro al treno è l’unico modo per evitare di perderlo. Stare al di sopra di ciò che comunque, necessariamente, accadrà. Questo richiama in causa le nostre scelte, il nostro libero arbitrio.  E ci ritroviamo di fronte al  mito platonico di Er evocato da Saviani nel suo saggio: nella vita umana ci sono il caso e la necessità,  ma anche la libertà di scegliere. La filosofia infatti è in funzione della vita. Che sottosta alla necessit,à ma è pur sempre frutto delle nostre scelte. Forse è il tempo di tornare a una filosofia pratica, non solo teoretica . In questo senso l’esercizio della filosofia potrà aiutarci a essere maggiormente consapevoli, e memori del passato. Non per adagiarci su di esso, ma per non ripetere gli stessi errori.

Ricordandoci sempre che siamo noi il Cigno nero, l’improbabile, quel caso fortuito (ed incerto!) di enormi proporzioni che ci ha portato alla vita, in un universo nel quale, fino ad ora, sembriamo essere davvero la sola eccezione, la sola meravigliosa incertezza venuta all’esistente.

 

21 gennaio 2023

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *