Conosco una bambina che ha deciso di non andare più a scuola per una serie di capricci. I poveri, un po’ sprovveduti genitori non riescono in alcun modo a farla ragionare. Ho dato loro (purtroppo invano) alcuni consigli e suggerito svariati argomenti, il più importante dei quali è il seguente: ci sono cose su cui possiamo discutere (i vestiti, i giocattoli, le vacanze, le feste, mangiare il gelato oppure no, da che cosa travestirsi a Carnevale e quali film vedere in tivu etc) e altre su cui non possiamo in alcun modo discutere. Tra queste, una delle più importanti è: i bambini devono andare a scuola.
Più o meno la stessa logica dell’argomento indiscutibile pare sia stata seguita dalla Corte Costituzionale che ha da poco giudicato inammissibile il referendum sull’eutanasia attiva, chiesto con una raccolta firme organizzata nei mesi scorsi dall’Associazione Luca Coscioni. La sentenza integrale della Corte non è ancora nota, ma secondo un appunto dell’ufficio stampa il referendum è stato respinto perché, in caso di legalizzazione dell’eutanasia, «non sarebbe stata preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili».
Mettiamo che un esercito di bambini capricciosi proponga un referendum sull’abolizione della scuola: più o meno tutti, prima o poi, a nostro tempo ci saremmo accodati. Chi è andato sempre volentieri sui banchi, chi ha affrontato sempre serenamente interrogazioni e compiti in classe? Chi ha invariabilmente accettato di buon grado rimproveri di maestri e professori e prese in giro di compagni? Ciò non ha mai scoraggiato i nostri illuminati genitori dal mandarci a scuola comunque, con le buone o con le cattive. In quanto l’istruzione obbligatoria è prevista appunto dalla Costituzione.
Anche la tutela della vita lo è. Si dirà che anche la libertà di pensiero è uno dei diritti previsti dal nostro ordinamento. E non sarà la prima e l’ultima volta che due o più diritti vengono a collidere tra loro: la questione non è certo facile da sciogliere.
C’è chi nota che la discussione era stata avviata dalla stessa Corte quando nel 2019 era intervenuta sulla morte del “DJ Fabo”, stabilendo che a determinate condizioni non è punibile l’assistenza al suicidio, spingendo di fatto il Parlamento ad approvare una legge in merito: un testo base sul suicidio assistito era stato approvato nell’estate 2021 dalla commissione Giustizia della Camera, ma senza ulteriori sviluppi concreti. A tutt’oggi, chi aiuta un altro a suicidarsi delinque. Chi intende “essere legalmente suicidato” deve emigrare.
I sostenitori del suicidio di stato attribuiscono il bigottismo della Corte costituzionale a eredità veterocattoliche di cui sarebbe imbibita nel profondo la nostra filosofia del diritto. Può anche darsi. Così come può anche darsi che coloro che ritengono oggi inammissibile il suicidio assistito – me compresa- cambino idea una volta arrivati al capolinea della vita tra indicibili sofferenze.
La soglia minima di tutela della vita è l’argomento tecnico più pregnante riguardo a tutta questa delicata questione, ma non è il solo che deve farci esercitare massima attenzione. Dal suicidio legalizzato all’omicidio legalizzato il passo potrebbe essere pericolosamente breve. Come accertarsi senza ombra di dubbio che la persona “suicidata” –per definizione debole e vulnerabile- non sia stata in realtà semplicemente assassinata, grazie a una banale manipolazione delle sue volontà? Quante persone, stremate dall’assistenza a un malato cronico potrebbero truccare le carte e farlo fuori senza tanti complimenti liberandosi così del penoso problema? L’accertamento delle prove sarebbe alquanto a rischio.
Ma il problema, in ultima analisi, non è neppre questo: la bambina che non vuole andare a scuola e l’aspirante suicida hanno qualcos’altro in comune oltre a un diritto costituzionalmente indiscutibile. Questo qualcos’altro è la dignità. La dignità è l’argomento più volte invocato dai sostenitori dell’eutanasia legalizzata. Certe malattie ti fanno perdere la dignità, ed è giusto porvi fine. Io sostengo il contrario: è proprio nel dolore che si prova la dignità. E’ proprio di fronte ai propri limiti che l’essere umano ha occasione di provare la propria grandezza. A cominciare da piccolo, dal superamento di capricci più o meno pretestuosi, dalla accettazione di inevitabili contrarietà. Nessuno sostiene che questa prova sia facile. Ma è proprio in questo che la sofferenza si riscatta. E’ proprio in questo che ci dimostriamo “adulti”.
Non ci resta che dividere l’umanità in due: da una parte chi accetta la vita per quello che è, in senso globalmente e autenticamente “ecologista”, tutelando così non solo l’ambiente (dall’acqua dei fiumi ai babbuini, dai tornados devastanti alla zanzara tigre, insomma tutto, nel bene e nel male), dall’altra chi preferisce continuare a piegare questo tutto alle proprie necessità più o meno giustificate. Ma tra questi ultimi forse non c’è molta differenza tra chi deturpa il pianeta con gas inquinanti o scorie radioattive per perseguire i propri spesso biechi interessi e chi si ammanta di generosità planetaria per accompagnare una vita nella direzione più “comoda”, per il singolo e per la collettività.
Si tratterebbe di perseguire è l’ecologia umana, diceva qualcuno. Parlare di “rispetto della vita” fa venire a molti l’orticaria. “Rispetto della natura” invece è un mantra universalmente sbandierato, che intende tutelare appunto tutto ciò che è definito “naturale”. Ma se in questa espressione includiamo anche l’essere umano, nel bene e nel male, allora tale rispetto non dovrebbe esercitarsi a intermittenza.
6 febbraio 2023