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CHE VUOL DIRE “PADRE”

Ho un amico che si è costruito un figlio negli USA con la fecondazione eterologa in vitro. Una donatrice di ovuli  sconosciuta (scelta su catalogo come un’automobile) e una locatrice di utero. Cioè due madri per nessuna madre:  lui è felicemente celibe. Il bambino ha già quattro anni e cresce sano e bello, soprattutto somigliante al padre, a detta del padre.

Ma quale padre? In che senso “padre”? Me lo sto chiedendo da quattro anni. Ho già espresso pubblicamente il mio sconcerto per questa scelta che ha il sapore dell’egoismo e della follia tecnologica. L’ho espresso a tutti tranne che, per una vile mancanza di sincerità, al padre in questione. Che, sono certa, mi bollerebbe come una ottusa bacchettona, moralisticamente arretrata, e che comunque non vedrebbe minimamente appannata dal mio parere la sua esaltazione “genitoriale”.

Torno a chiedere: quale genitore? In questa folla di personaggi non ne vedo neppure uno. Vedo scienziati smaliziati e disinvolti, vedo due donne che si vendono e di fronte alle quali nessuno si scandalizza come invece di fronte alle porno star, e un uomo che le compra, di fronte al quale nessuno si scandalizza come invece di fronte ai vecchi frequentatori di bordelli o ai loschi produttori cinematografici additati dal movimento me too, bravissimi ad acquistare prestazioni sessuali di attricette speranzose, in cambio di qualche particina in un film. Vedo la dignità della donna fatta a pezzi, vedo il mito della maternità sbriciolato nell’indifferenza generale, anzi nel plauso dell’universo mondo. Viva la scienza.

Penso e ripenso alla parola “padre”. Anche a mio padre, perduto tanti anni fa. A tanti altri padri che ho conosciuto. Quando un uomo può dirsi “padre”? Quando condivide con una madre (con un’altra persona) un progetto di futuro, direi. Bisogna attraversare il due per arrivare al tre. Si può essere in due e diventare genitori anche senza un progetto, beninteso: quante gravidanze capitano per caso, anche indesiderate? Ma almeno per un istante, in qualcosa si è creduto, di qualcosa si è goduto, a qualcuno si è regalato un sorriso, un’illusione, un abbraccio. Serve un abbraccio per generare abbracci, per continuare ad abbracciare il mondo. Serve un incontro per predisporsi ad incontrare il futuro. Vale ovviamente anche per chi adotta, invece di generare. Vale ovviamente anche per chi alleva un figlio in solitudine per sopraggiunte circostanze diverse.

Ma forse siamo all’alba di una nuova umanità che sfugge alla mia comprensione. Oggi il Presidente della Repubblica ha espresso il suo sdegno al nuovo ambasciatore iraniano per le violenze compiute nel suo paese e ha evocato quel limite invalicabile relativo al rispetto dei diritti umani. C’è un limite invalicabile anche nella trasmissione e nella custodia della vita? Ma non è ancora questo il punto. Un vecchio detto ricorda che non c’è nato che Dio non voglia. E lo confermano i teologi. Se quel bambino è venuto al mondo non lo ha deciso certo il sedicente padre o gli scienziati della provetta, ma Dio o chi per lui.

Il punto è ancora un altro: c’è un limite invalicabile relativo al senso della paternità? Che me ne faccio di un padre biologico che mi ha generato facendo a meno di un abbraccio, “autoabbracciandosi”, se mi è permesso l’eufemismo? Certamente chiunque può allevare chiunque, se c’è amore. Vedi san Giuseppe. Il mio amico sarà sicuramente un ottimo “allevatore” e il bambino crescerà splendidamente accudito e amato.

Ma che cosa rende padre un padre? E che cosa rende figlio un figlio? Gli spermatozoi? Il corredo genetico? E ci sarà, nella memoria di quel figlio, la coscienza di non essere nato da un abbraccio –anche occasionale, perfino mercenario – ma da una provetta e dalla “mercenarietà” di due donne sconosciute, oltre che dalla solitudine di un uomo refrattario alla condivisione di un sentimento, di un’emozione, di un progetto? Ci sarà, nel suo sangue, la memoria del freddo del vetro e di quella decisione solitaria? Ci sarà la nostalgia profonda, inspiegabile, della carne, dell’intimità? di quella scintilla naturale che pare scocchi al momento della fecondazione?

Non voglio pensare che il piccolo possa un giorno sentirsi discriminato, ma nel profondo di noi stessi, davvero essere figli dell’amore, del caso o dell’egoismo  avrà sempre lo stesso peso? Neppure mi scandalizzo delle infinite possibilità della scienza (in questo campo probabilmente siamo solo all’inizio). Ma della confusione fra sacro e profano sì che mi scandalizzo. E così  l’ho scritta, finalmente, la parola tabù: “sacro”. Perché quando ci vuole ci vuole.  La vita e sacra, perché non dipende mai da noi soltanto. La vita non sappiamo da dove viene, non sapiamo dove va. E’ mistero che non ci appartiene, nel quale siamo soltanto passeggeri. Per questo “onora il padre e la madre” è faccenda sacra. E non solo essendo figli, ma anche e soprattutto essendo padri. Onorare un ruolo comporta il comprenderlo, il rispettarlo.

Perciò lo chiedo un’altra volta, e qualcuno perfavore mi risponda: che cosa vuol dire “padre”?

 

12 gennaio 2023

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