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CIO’ CHE NON APPARE

Pochi giorni fa il responsabile dell’Archivio Editoriale Multimediale del Vaticano, Pietro Cocco, mi ha ringraziato “per il lavoro ‘nascosto’ di recupero e acquisizione digitale di un patrimonio sonoro della Radio”. E’ stato il mio impegno durante la mia ultima fase di ingaggio nell’emittente pontificia, prima del congedo. Dopo quarant’anni di produzione programmi, ho dedicato gli ultimi sei mesi al salvataggio e alla schedatura del materiale accumulato (oltre cinquemila file) e l’impresa non è ancora terminata, ma conto di terminarla da casa, anche grazie all’aiuto del collega Fabio Turchetti. Nessuno me lo ha chiesto. Non è un atto di generosità né di dedizione volontaristica da parte mia, ma di puro egoismo. Il lavoro radiofonico è labile ed evanescente e io invece ambisco all’eternità, vorrei che qualcosa di me restasse. Come la lumaca, cerco di lasciare la scia. Però, a differenza della lumaca, so benissimo che la mia scia durerà solo poco più di una canzone trasmessa per radio. Però mi accontento.

D’altra parte, i nostri tempi tecnologici mi hanno addestrata fin dall’inizio del mio impegno professionale a una responsabilità storica basata sulla coscienza del reperto sonoro: fu già a partire dagli anni venti del secolo scorso che ci si rese conto di poter raccontare il passato non più e non solo attraverso documenti scritti e fotografici ma anche attraverso le voci registrate. Un vero salto di qualità. L’ingresso dell’audiovisivo nella storia ha così arricchito il ventaglio dei documenti tramite i quali ricostruire e certificare il passato. E nella mia carriera radiogiornalistica ho intercettato parecchi testimoni del nostro tempo: aver catturato nel mio registratore le loro voci nella freschezza del momento,  mentre tradivano un’esitazione o la sorpresa per una domanda scomoda è un valore aggiunto all’autocoscienza di tutta un’epoca. Sono poi molto fiera di avere condiviso questa consapevolezza con i funzionari dell’ex Discoteca di Stato, oggi Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (che a Roma ha sede a Palazzo Antici Mattei, in via Caetani, dove fu ritrovato il corpo di Aldo Moro…), i quali, con responsabilità e passione, tutelano il patrimonio visivo e sonoro di parte della nostra storia, e che mi hanno spesso generosamente aiutata nella ricerca di materiali per la realizzazione di importanti documentari. Uno di questi proprio sul sequestro Moro.

Ma torno a quel grazie “per il lavoro ‘nascosto’ di recupero” etc. In fondo, tutto il lavoro radiofonico è nascosto, e in questo è la sua bellezza, ne ho già parlato tante volte. Ma ogni lavoro nascosto ha questa bellezza. E del resto, ogni lavoro ha una parte –bella ed eroica- di nascondimento, di invisibilità. Quella per la quale quasi nessuno ti dirà mai grazie. Mesi fa, il relativamente nuovo direttore editoriale del Dicastero di cui fa parte la Radio Vaticana mi rimproverò di non avermi mai vista. Lo avevo appena rimproverato, in una lettera aperta, precisamente di quello di cui mi stava rimproverando lui: non avermi mai vista, non essersi accorto del mio impegno, non avermi mai convocata né consultata. E come me, tanti altri. Che i non addetti ai lavori ignorino la fatica e il valore di una certa professione o di un certo mestiere, è fisiologico, quasi giusto. Che lo ignorino i responsabili fa interrogare.

Ma torno ancora al lavoro nascosto: se passare inosservati  agli occhi del “capo” potrebbe essere frustrante, in assoluto essere ignorati in tempi di  sovraesposizione mediatica, è invece molto gratificante, anzi è diventato un punto di merito. L’altra faccia dell’era dell’audiovisivo è la saturazione, l’assuefazione allo squallido, alla superficialità e alla volgarità. Grazie, no. La radio mi ha insegnato la bellezza dell’essere invisibili, ricordandomi che dietro ogni gesto semplice c’è sempre un meccanismo complicato. Dietro l’acrobazia del funambolo, che appare così spontanea, ci sono anni e anni di allenamento, studio, fatica, rischio, trepidazioni, sudore. Dentro l’orchestra che accompagna il solista, ci sono tanti strumenti di cui quasi non si avverte la presenza (uno per tutti:  il basso, mesto porteur) di cui però non potrebbe mai sfuggire l’assenza. Presenti, possono passare inosservati. Ma, se assenti, si rivelano protagonisti. In un’opera d’arte, tutto è esposto e magicamente in equilibrio, ma i particolari sono inafferrabili.  Se il tutto non è mai solo la somma delle parti, ogni singola parte ha un ruolo misterioso, insostituibile e nascosto nell’equilibrio del tutto.

Se pensassimo costantemente a quello che comporta il semplice gesto di schiacciare un interruttore diventeremmo pazzi: metacarpo, falange, capacità prensile, segmento osseo, apparato tegumentario, pressione, muscolo estensore, muscolo interosseo, tendini, sinapsi, connessioni neurali, libero arbitrio… E dall’altra parte fili, molle, arco voltaico, contatto metallico, neutro, autoinduzione, sovratensione, terra, fase, bifase, deviatore, commutatore … Un caos! Ma noi facciamo solo clic. Ogni nostro gesto automatico è solo la punta di un iceberg gigantesco di cui è facile dimenticare l’esistenza. E oggi che gli iceberg e le montagne di ghiaccio si sciolgono, ci farà bene pensare che anche il pianeta sul quale poggiamo i piedi è un meccanismo solo apparentemente semplice e automatico, cui è sotteso invece un sistema di sistemi molto complesso e molto delicato.

Dedicare attenzione a ciò che non appare in tutto ciò che ci circonda (habitat naturale e habitat umano) è un esercizio di umiltà e di rispetto per il quale non dovremmo mai aspettarci di essere ringraziati. E’ un modo, semmai, per mostrarci consapevoli della ricchezza che ci circonda e dunque, piuttosto, per ringraziare.

Far parte di questa invisibilità forse è la vera ecologia di domani: inosservati, osservare. Soprattutto ciò che non appare.

E inascoltati, ascoltare. Soprattutto chi sembra tacere.

 

5 luglio 2022