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COME IN UNO SPECCHIO

Il teatro ci assomiglia, ci rappresenta, da sempre. In scena vanno le nostre paure, i nostri miti, i nostri sogni, e anche i nostri vizietti. Noi ci raccontiamo in teatro e nello stesso tempo il teatro ci racconta.
Io vado a teatro spesso e volentieri; sono una spettatrice piuttosto navigata e smaliziata, tanto da avere notato negli anni da una parte l’evoluzione del fare teatro, grazie soprattutto alle idee di piccole ed energetiche compagnie di giovani, dall’altra l’immobilismo dei teatri più blasonati, che non si discostano quasi mai da una programmazione ripetitiva, borghese e collaudata.
Ma non voglio parlare di teatro. Vogli parlare di come, grazie al teatro, emergano interessanti indizi su noi stessi, esattamente come in uno specchio.

Roma, Teatro Vittoria. Prima dello spettacolo, invece del tradizionale avviso: “tra cinque minuti inizia lo spettacolo, siete pregati di spegnere i vostri cellulari”, una voce femminile dal tono, nelle intenzioni, ironico invita gli spettatori a lasciare accesi i propri telefonini. E prosegue, più o meno soavemente, avvisando che quando uno di questi telefonini lasciati accesi squillerà, lo spettacolo si interromperà, si accenderà una luce in sala sul possessore, il quale verrà invitato a rispondere e a proseguire la propria telefonata in palcoscenico.
La provocazione è chiara. Che la media degli spettatori teatrali sia maleducata, visto che molti continuano a manovrare sui propri dispositivi anche durante lo spettacolo non è una novità. Oramai la dipendenza da cellulare è quasi una patologia sociale. La novità, francamente sgradevole ( e lo sottolineo in quanto spettatrice pagante) è essere trattati dalla direzione di un teatro serio come scolaretti bisognosi della minaccia punitiva del pubblico ludibrio. Non si educano così le persone, le si spaventano puntando sul loro infantilismo. E talvolta, quando infantili e maleducate non sono, le si offendono, come nel mio caso. Perciò non vado volentieri al Teatro Vittoria: un annuncio di questo genere mi ricorda che viviamo in una comunità di immaturi dove anche chi gestisce la cultura -dispiace dirlo- non brilla di maturità e tanto meno di eleganza. Si dirà che quello del Teatro Vittoria è un annuncio ironico e scherzoso. Sarà. Di fatto riesce ad annegare l’ironia in una assoluta mancanza di tatto e di gusto.

Altro indizio su noi stessi captato in teatro. Sempre più spesso, al termine di molti spettacoli, gli attori, che fino a qualche tempo fa si limitavano a inchinarsi rispettosamente davanti a pubblico per ricevere i meritati applausi, prendono la parola e iniziano a conversare di questo e di quello con la platea (la prossima tournèe, curiosità sull’allestimento, avvisi sulla associazione benefica cui fare un’offerta all’uscita, notizie varie sul testo e sull’autore etc etc). Come se non bastasse loro di essersi esibiti nei panni di Falstaff o del signor Frola, proseguono cioè la rappresentazione uscendo dai loro personaggi per mostrarsi nella propria normalità. Un vezzo che, di nuovo da spettatrice pagante, mi disorienta. Il mistero del teatro ha in sé qualcosa di sacro: la finzione. Tanto più sacra oggi in quanto inflazionata e spesso indistinguibile dalla realtà, dalle cattive intenzioni dei manipolatori di notizie. Se c’è un luogo dove la finzione è riconoscibile per quello che è, questo luogo è proprio il teatro. Per una o due ore possiamo permetterci di credere vero ciò che sappiamo finto, e che ci viene raccontato in scena come la vecchia favola della buonanaotte. Ma, affinché quella finzione svolga per intero la sua missione quasi catartica, è necessario che rimanga una invisibile, sottile ma non oltrepassabile linea di confine a dividere la nostra realtà quotidiana, da quella realtà immaginaria. Che il personaggio esca immediatamente dai suoi panni rientrando nella “banalità” di quelli dell’attore, mi precipita improvvisamente dentro una dimensione prosaica per uscire dalla quale invece avevo pagato il biglietto. Con questo non affermo di voler continuare ad essere presa in giro ad oltranza, sospetto piuttosto che è come se avessimo tutti paura di alimentare consapevolmente le nostre immaginazioni, come temessimo di scegliere di abbandonarci ai sogni, preferendo interromperli il prima possibile, ricordandoci il prima possibile che stavamo solo giocando, e che ora di tornare a fare le persone serie… Ma no, perfavore, lasciateci divertire.

A Roma c’è il particolarissimo Teatro di Documenti, frutto della fantasia visionaria dello scenografo Luciano Damiani. Grande invenzione: il teatro deve essere democratico, dunque più nessuna divisione più fra palco e platea. Attori e pubblico coabitino nello stesso spazio in nome dell’abbattimento di tutte le barriere. Per chi non lo conosce è in effetti un unico stanzone, architettonicamente molto bello, ma senza alcuna separazione tradizionale fra scena e spettatori.

A me, oggi, sembra un’ipocrisia. E lo pensano anche tutti i disorientati spettatori che – sono sicura- non hanno alcun interesse  a mischiarsi con l’azione scenica, infatti tutti cercano la postaizone ppiù periferica e defilata, più vicina a quella divisione tradizionale che è tipica di ogni rappresentazione.  Forse quando questa idea fu partorita si usciva dagli anni settanta del secolo scorso, quando la pretesa di “democrazia” doveva essere spalmata anche nel tramezzino fra una fetta di pane e uno strato di maionese. Oggi mi sembra che noi tutti si possa riacquistare la sufficiente maturità… per permetterci di sentirci bambini, di non assumerci più cioè la responsabilità di far parte attiva di uno spettacolo di cui vorremmo essere onestamente niente altro che spettatori. E allora, anche in questo caso, lasciateci divertire. Lasciateci credere che da qualche parte possa esistere davvero uno spazio misterioso e sacro (ripeto: sacro) in cui veniamo presi per mano a credere che tutto può avvenire, e dal quale noi spettatori siamo esclusi per definizione, anzi per scelta, potendoci proprio perciò permettere di prolungare la nostra fantasia all’infinito, in un’area infinitamente protetta.
Abbattere certe barriere, così come mischiare le carte in tavola (attori e pubblico in nome della pretesa di democrazia o di una male intesa “qualunquità” di rapporti), toglie il meglio a un gioco arcaico ed eterno come la finzione teatrale: le sottrae mistero.

Proprio ciò a cui oggi siamo tragicamente disabituati e che è, si direbbe, all’origine di questa nostra desolante asfissia spirituale.

8 maggio 2023

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