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DOPO IL DIGITAL, il “PHIGITAL”

L’altro giorno il postino mi ha fatto firmare quietanza per la consegna della solita raccomandata. Firma “digitale”. La vecchia biro non serve più: si torna al dito, ma ovviamente sul display di uno Smartphone. Il dito indice. Anche quando scriviamo sulla sabbia tendiamo a usare quello, chissà perché. E anche Michelangelo, per rappresentare la nascita di Adamo, l’atto creativo di Dio, scelse di far sfiorare i due indici: quello del Padre Eterno, puntato energicamente sulla sua creatura, e quello dell’uomo, ancora mollemente rattrappito in un deliquio alla vigilia del risveglio. Che sembra iniziare proprio dal polpastrello del dito indice.

Il dito, il primo calcolatore umano. E difatti da bambini, per contare usiamo le dita. Ma anche per rappresentare numericamente un’informazione oggi usiamo il termine “digitale”. Che deriva dall’inglese “digit” (cifra) che deriva dal latino “digitus”, dito.  Il cerchio si chiude. O forse non si è mai aperto. Siamo ancora e sempre bambini che contano le caramelle sulle dita e poi si inventano l’informatica, il microprocessore, l’elettronica, la conversione analogico-digitale, il calcolo binario zero uno uno zero.

A pensarci, anche il codice genetico del DNA è una forma naturale di archiviazione digitale, cioè numerica di dati: nel nostro intimo, non siamo che cifre. E anche il mistero della bellezza, che ci commuove all’ascolto di una musica o alla contemplazione di una forma, non è che un numero, una proporzione, o meglio il rapporto fra due misure, che dà ragione della bellezza di una conchiglia così come dell’armonia del Partenone o del Palazzo delle Nazioni Unite a New York, dell’equilibrio nella corolla di un fiore così come della Gioconda di Leonardo o della Nona di Beethoven.

Tutto è numero, cifra, digit… La massima “matematizzazione” dell’universo (con tutti i rischi connessi di virtualizzazione e progressiva smaterializzazione del nostro tempo) ci riporta a guardare noi stessi, a guardarci le dita, e in particolare quel secondo dito indice, che è il primo contatore, ma anche quella parte del corpo che usiamo istintivamente per mostrare qualcosa, per accusare, per denunciare, segnare, evidenziare…

Il numero ci indica chi siamo, o forse chi vorremmo essere: un uno di contro a tanti, un “io” unico che si discosta e si differenzia dalla folla degli infiniti tanti. Nel dire “sono io” ci puntiamo infatti ancora e sempre l’indice al petto.

E non è forse dallo studio di un numero, il numero “uno”, che ha avuto origine una parte della riflessione filosofica occidentale? In base alla dottrina dell’Uno, Senofane immaginò Dio come una unità eterna che permea tutto l’Universo. Da qui il Dio ebraico-cristiano: un essere unico, eterno, ingenerato e infinito.

Ma se siamo numeri, un’infinità di “uno” consapevoli della serie infinita cui apparteniamo e da cui discendiamo, perché siamo ancora così resistenti a sommarci e a dividerci? A mescolarci o a disgiungerci, in vista di un risultato totalmente diverso da quell’unica cifra che pretendiamo ci rappresenti e ci definisca una volta per sempre?  Sopra di noi c’è l’infinito. Perché tendiamo ad accontentarci di questa piccola quantità certa, tendendo a sfuggire da possibili, imprevedibili, entusiasmanti operazioni ed equazioni a mille incognite?

Tutto quanto sopra, mentre il postino aspetta che il mio dito indice completi la strana firma “Phigital”, per metà fisica e per metà digitale sullo schermo del suo Smartphone. La calligrafia risulta tremolante e incerta: so che sto andando avanti ma mi consolo del fatto che in qualche modo sto anche tornando indietro…

 

2 febbraio 2023

 

 

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