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DUE MANI NELLA STESSA TASCA

Passeggiare con le mani in tasca, per noi donne, è un sogno. Perché una delle due è sempre impegnata a tenere una pochette, un cellulare, una borsa, una valigia, un trolley, la sporta della spesa, il sacco della tintoria, un borsellino, il guinzaglio di un cane, la busta del supermercato, un mazzo di chiavi, una cartella di documenti, il cesto per la Caritas etc etc etc

Non abbiamo tasche capienti come i maschi, ma se pure le avessimo, non ci entrerebbe quasi nulla di tutto quello che siamo obbligate a portarci dietro o a trascinare da una parte all’altra del mondo. Una donna, per definizione, porta.

Porta e trasporta. Bisognerebbe a questo proposito rileggere il bellissimo saggio di Corrado Alvaro Il nostro tempo e la speranza, dedicato alle donne che portano pesi. Se volessimo poi giocare anche con le assonanze e le parole, una donna porta, ma è anche una porta, ovvero un passaggio. Questo destino di traghettatrice impone a ogni donna di avere sempre con sé un bagaglio, anche minimo, anche solo mentale, quasi il memento dell’esodo quotidiano e dunque il ricordo della casa che ci lasciamo alle spalle e della vana meta cui siamo indirizzate. Per questo, passeggiare dinoccolata come un maschio, con nessun fardello per le mani, ma entrambe queste ultime ben sprofondate e nullafacenti in fondo alle tasche di una giacca o di una casacca, è un sogno praticamente irrealizzabile. Ergo la libertà, per una donna, è passeggiare con le mani in tasca.

Flâneuse mai abbastanza innocente per non essere confusa con una battona, una donna che passeggia con le mani in tasca incarna l’impossibile emancipazione dalla biologia: ogni donna – anche se non madre  – è destinata a portare in sé o con sé qualcosa o qualcuno.  Portare ed essere portata: ogni donna lo è anche stata, come tutti, maschi e femmine, almeno una volta nella vita, certamente prima di nascere.

Sere fa, casualmente partecipando ad una festa campestre, ho incontrato mia figlia. Ultimamente la vedo di rado, per i suoi tanti impegni. La serata all’aperto di fine estate regalava a tutti brividi non previsti: sorpresi da un venticello autunnale e abbigliati ancora poco adeguatamente, tutti sentivamo il bisogno di scaldarci, preferendo la vicinanza a un forno da giardino o la sosta all’interno del locale. Volendo approfittare del felice incontro con la mia ex bambina, mi sono seduta su una panca accanto a lei, cercando di rubarle un aggiornamento, una chiacchiera o una confidenza. Purtroppo lei era seduta all’aperto, e intenzionata a restarvi, evidentemente non sentendo abbastanza freddo come tutti gli altri, me per prima.  Mi ha comunque concesso di restarle vicina, contrariamente alla sua consueta, insofferente tendenza alla fuga. Invidiavo il suo giubbino, contro il quale mi strusciavo in cerca di un po’ di tepore, in realtà sperando di recuperare il tepore di lei.

Teneva le mani in tasca, evidentemente preferendo anche lei scaldarsi un po’.

Non so come, infreddolita e insieme rapace, ho fatto una mossa alquanto terroristica, consapevole di farla, insinuando la mia mano sinistra in una delle sue tasche, cercando calore e trovando il contatto con una delle sue mani. Caso strano, non sono stata istantaneamente espulsa, e siamo rimaste qualche minuto così, mano occupante e mano ospite, entrambe nella tasca usurpata, a scambiarci tepore.

Questo piccolo marsupio improvvisato, mi ha regalato un istante di maternità restituita, o per meglio dire capovolta. Per un attimo sono stata ospite di colei che ho ospitato.  La vita è un furto, fugace e provvisorio, che viene comunque restituito, prima o poi. Perché ciascuna di noi è destinata a portare qualcosa o qualcuno, vedi sopra. E quando una donna arriva veramente a capire chi è, non c’è più intimità che possa esserle strappata, non ci sono più spazi privati che possano esserle sottratti. Allora accogliere diventa inevitabile. Allora nessun peso può più attentare alla nostra libertà. Siamo adulte.

 

11 ottobre 2023

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