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FIGURE, FIGURINE E FIGURACCE

Mio padre faceva il disegnatore, sono abituata alle figure. Figure umane in movimento,  soprattutto. E poi volti, espressioni… Guardarlo disegnare mi ha collocato in un osservatorio privilegiato di umanità, e in una scuola di compassione.

So anche come deve sentirsi un disegno quando scende giù da una mano: tante volte mi sono sentita anche io un suo disegno, messa a nudo dallo scandaglio ipercritico del suo sguardo e del suo orgoglio paterno: creata dal nulla.

Per la stessa ragione a volte sono un po’ legnosa. Mi sento addosso i tratti scuri della grafite, l’intransigenza della linea, spesso così dittatoriale e implacabile, severa di chiari e di scuri, sempre sul crinale di uno squilibrio, nell’allerta di una possibile offesa, da dare o da ricevere.

Sì, sono anche io una figura e ….voglio fare sempre bella figura!  Sono nata così. Ereditando la pretesa della perfezione di un disegnatore molto accademico.

Per ragione uguale e contraria, mi sento in democratica sintonia con tutte le altre figure che popolano il mondo: figure disegnate e figure reali, diritte e storte, nobili e meno nobili, complete e abbozzate, quasi perfette e scarabocchi. Mi riconosco naturalmente in ciascuno dei miei simili e di loro mi sento sorella: ciascuno di noi nato dal nulla, appeso a una linea più o meno greve, più o meno anarchicamente proiettata sulla nobiltà del vuoto. Ognuno ha un dono, un tocco di luce, una possibilità di riscatto, e pertanto una pecca di cui farsi perdonare, qualche sgorbio da cancellare. In ciascuno di loro riconosco qualcosa di familiare e di irreversibilmente condiviso: la comune “figura” dell’essere umano, i tratti nobili e splendenti della specie, uniti alle sue inenarrabili piccolezze in infinite varianti.

Però poi ci sono anche le figurine. Quando ero bambina mi hanno sempre scoraggiato dal collezionarle. Circolava un pregiudizio mai espresso da mio padre, che però recepivo con chiarezza. Nell’atto del collezionare qualsiasi cosa si annida un che di meschino: ridurre la vita a un catalogo, a una sequenza di estemporanee superficialità. Eppure mi piacevano tanto quegli album scricchiolanti di coccoina, quelle pagine fitte di facce di calciatori o di foto di animali che mi venivano mostrate dagli amici. “Ma la vita non è un album”, mi avvertiva mamma.

E non è neppure una storia di fate e maghi buoni. Lo scopro adesso che sono quasi vecchia. Tante esemplari figure di maestri, benefattori, nobili signore e principi azzurri, viste a distanza di tempo o “con lo sguardo del loro cameriere” (come scriveva Hegel) può capitare che diventino francobolli senza valore. Figurine, appunto. Irrigidite dentro un ruolo autocostruito ad hoc, cristallizzate in una posa di comodo o di convenzione. Su cui pertanto non vale la pena soffermarsi, figuriamoci collezionarle. La vita non è un album.

Che cosa differenzia la figura dalla figurina? Non è solo un fatto di dimensioni. La prima è libera, in dimestichezza col vuoto, può diventare ciò che vuole, guardare dove vuole, pensare e essere pensata, formata e deformata, cancellarsi e riprodursi, avvicinarsi o allontanarsi dal reale…

La seconda è ottusamente fedele a quel reale che prende per vero, finendo così per assimilarsi a infinite altre, la corrompe un conformismo inesorabile che la conduce ad arroccarsi nel suo quadratino, e quindi intrupparsi in una sequenza di “lapidi umane”, di battute fisse, esponendosi anzitempo dentro un cimitero di pseudo viventi in cui nulla cambia, tutto si ripete uguale con altri attori negli stessi piccoli ruoli di uno stesso piccolo dramma. La figura è metafora della vita, la figurina è antipasto della morte.

A volte grandi figure diventano figurine grazie a una figura di merda. Quante ne abbiamo viste e ne vedremo. L’onesto pubblico amministratore colto con le mani nel sacco, per esempio. Per fermarci al caso più eclatante. Per non parlare delle bugie con le gambe corte, dei tradimenti smascherati per caso, delle gaffes pubbliche cui non sfuggono papi e presidenti, delle omissioni, dei malcelati voltafaccia di presunti amici che hanno finito di sfruttarti, di tutte quelle situazioni di cui si dice che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, a significare che ogni cattiva intenzione, prima o poi, si lascia smascherare. Detto altrimenti: benché s-figurata, prima o poi la verità appare.

La parola “figura” deriva da “fingere”. E “fingere” deriva da un’antica radice “dhig” che vuol dire “tastare”, “maneggiare”, “impastare”. La figura è un impasto di forme che vuole assomigliare alla realtà, diventare più reale della realtà, diventare vera. La figura vuole farci credere che il vero e il reale siano la stessa cosa: forse le fate esistono davvero, forse questo è il migliore dei mondi possibili.

Sono figlia di un disegnatore. Sto in dimestichezza con le figure: in mezzo a loro mi sento più a mio agio che nella protervia e nella tracotanza del mondo reale fitto delle loro varianti meschine e ridicole, sfacciate e banali: figurine, loschi figuri e figuracce. Per questo, nel mondo oramai quasi mi manca l’aria.

E allora fatemi tornare dentro la pulizia di un disegno. Raccontatelo voialtri il mondo com’è, io continuo a dormire nella raf-figura-zione perfetta ed anarchica di come dovrebbe essere.

 

28 novembre  2023

 

Per la cronaca: tra qualche giorno sarà ufficialmente in libreria un corposo catalogo di sole figure (disegnate, dipinte e anche scolpite) prodotte da mio padre nell’arco di tutta la sua vita. I disegni mai visti, NPE

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