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FINO ALL’ULTIMO RESPIRO

Stasera ho visto un uomo su una panchina con la testa fra le mani. Ho immaginato che stesse pensando al suicidio. Era un pover’uomo, vestito di abiti dignitosi ma piuttosto dimessi. Certamente, se davvero pensava a togliersi la vita non avrà avuto i soldi necessari per progettare un viaggio in Svizzera: in quel paese, oltre a trovare la migliore cioccolata del mondo, la neutralità politica, il Cern per la ricerca sulle particelle subatomiche e molte altre bellezze e opportunità, si può chiedere assistenza medica e legale per togliersi la vita. Una  cosa da ricchi, ma nessuno lo dice.  I poveri –se non sono svizzeri- non vanno in Svizzera per suicidarsi. Si lanciano da un ponte o si danno fuoco. Per questo si vorrebbe importare anche in Italia quella magnifica opportunità.

Dicono che il regista francese Jean-Luc Godard fosse stato lambito più volte nel corso della vita dall’idea di autoeliminarsi, fino a definire il suicidio “l’unico problema filosofico veramente serio”.

Chi decide di togliersi la vita è degno dello stesso rispetto dovuto a chi invece continua a vivere nonostante malattie, dolore, depressioni, delusioni d’amore fino all’ultimo respiro. Però avrei detto al signor Godard che esistono infiniti altri problemi filosofici veramente seri, oltre a quello da lui citato. Uno di questi è il sottilissimo confine fra pubblico e privato, fra individuo e Stato, fra diritto e dovere, fra limite e libertà.

Che cosa c’entrerebbe lo Stato nella libera decisione di uccidersi? E al diritto di togliersi la vita, quale dovere corrisponde? (Il dovere di togliersi di mezzo quando si diventa un peso per gli altri in una società basata sull’efficienza? Inumano, anche e soprattutto per i presunti “beneficiati” dal suicidio.) Da un certo punto di vista uccidersi è una decisione come un’altra, solo molto più tragica, ma proprio per questo perché statalizzarla? Perché umiliare un atto di tale coraggio (o paura) con la burocrazia o la carta bollata? Perché contaminare di garantismo pseudo democratico una scelta e un gesto così drammaticamente eversivi, così fieramente umani? Si dirà che c’è chi è materialmente impedito a ricorrere a un’arma, a lanciarsi nel vuoto: ha diritto come tutti a chiudere un’esistenza divenuta insopportabile. Ne abbiamo discusso, con tutti i distinguo. Ma chi semplicemente è annoiato?  Godard  “non era malato, era semplicemente esausto”, si legge su Libération.

Si avanza così, in seguito alla “morte assistita” del regista , di un altro centimetro nella atroce equivalenza fra possibile e giusto: si può fare, dunque è giusto. E se è giusto, è legale. E se è legale, è dovuto.

In Fino all’ultimo respiro, il film che sancì il successo di Godard come maestro  della Nouvelle Vague, la protagonista dice: “Io non so se sono infelice perché non sono libera o se non sono libera perché sono infelice”. Forse è la vita che ci rende comunque prigionieri, perché non siamo né immortali né onnipotenti. Dovremmo semplicemente accettarlo. Dal primo fino all’ultimo respiro. Ma c’è una libertà che nessuno può toglierci neppure in catene, e che non ha bisogno di alcuna “assistenza” statale. Al contrario. Si celebra nel segreto di ogni coscienza. Se no, non vale. O vale un po’ di meno. E beninteso questa è una mia libera opinione.

14 settembre 2022

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