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GUARDARE LE FIGURE

Per ascoltare invece di leggere:

Quando ero bambina, i fumetti che disegnava mio padre non mi appassionavano neanche un po’. Per due ragioni: i suoi disegni erano troppo realistici, “adulti”, roba da grandi e da maschi. (Patriarcato artistico? Può darsi. I suoi fan oggi cresciuti che mi contattano per avere notizie delle ristampe delle sue opere sono sempre maschi, infatti). Inoltre il fumetto era una questione troppo intellettuale per me: quelle tavole così quadrettate, il nero della china, l’obbligo di leggere e guardare nello stesso tempo: una fatica! Al massimo tolleravo Topolino, ma soprattutto preferivo i libri illustrati, e dunque mi incantavo semmai alle sue illustrazioni di novelle e racconti oppure destinate a copertine di libri e giornali. In quelle opere c’era sempre un’idea, una costruzione logica o narrativa o anche semplicemente grafica, che mi arrivava chiara, immediata, in maniera assai più diretta delle storie a fumetti. One Shot! Guardare le figure però (incantarsi alle figure) era ritenuta un’occupazione minore, e quasi perseguibile dai maestri e dagli educatori del tempo. Che un libro fosse illustrato era quasi una concessione e in ogni caso non doveva distrarre dalla priorità del testo. Retaggi di ottusa cultura iconoclasta e gutemberghiana. Me ne fregavo e sfogliavo spesso senza leggere. In casa tra l’altro circolavano ancora i preziosi  libri risalenti all’infanzia di mamma e papà, con le “incisioni” di Rino Albertarelli o le magnifiche figure un po’ liberty un po’ futuriste di Antonio Rubino. Guardare le figure è tra l’altro il titolo di un magnifico studio di Antonio Faeti che ricostruisce l’importanza storico-artistica degli illustratori, soprattutto in Italia, misconosciuti e quasi disprezzati dalla maggioranza dell’intellighenzia.

Mio padre illustratore dunque lo preferivo, per l’immediatezza delle immagini e per l’uso della tempera, ovvero per la prevalenza del colore. Per mia fortuna i miei anni alla scuola elementare coincisero con la sua fase di illustratore, all’incirca tra il 1962 e il 1967. Pur bambina, dicevo, decifravo al volo le sue intenzioni. In ogni illustrazione non c’era solo il semplice intento di illustrare. Non saprei dirlo nemmeno adesso: c’era un pensiero, un segreto da scoprire, un tesoro nascosto, il finale di una storia…

Anche nelle opere one shot che realizzava per uso domestico (pitture, sculture, caricature, veloci schizzi esemplificativi di qualsiasi argomento) lo trovavo affascinante. E’ proprio da questo spessore di intenzioni che è nata l’idea del “disegno-pensiero”, che ha dato spunto alla mostra bolognese suggerita dallo stesso Faeti e realizzata nel 2008 dall’associazione Hamelin. Mio padre disegnava pensando. Anzi: pensava disegnando, sarebbe più corretto.

E’ sempre dallo stesso punto di partenza che è partita l’idea del catalogo delle sue sole illustrazioni, in libreria per NPE proprio in questi giorni: un’idea che macinavo da diversi anni, non riuscendo però mai ad arrivare in porto. Intanto perché l’archivio delle opere paterne è immenso e di non facile gestione e consultazione. Ci hanno provato con generosità un paio di amici, ma poi ho finito per liberarli di un’incombenza troppo onerosa soprattutto per me, che non avevo, in quel periodo, la forza o la voglia di guidarli. Finché ho trovato qualcuno che ha guidato me e che è stato decisivo nell’aiutarmi a fare goal. Pier Giuseppe (“Beppe”) Barbero è uno di quei lettori maschi che amavano i fumetti maschi di mio padre che io invece non capivo. Da adulto è diventato un collezionista e uno studioso puntiglioso e generoso delle opere di Gianni De Luca: precisione piemontese e passionalità meridionale ne hanno fatto il partner ideale per me per raccogliere e selezionare le illustrazioni paterne, nonché per recuperarne, da riproduzioni praticamente introvabili, molte delle quali io stessa non ero a conoscenza.

I disegni mai visti è il titolo di questa raccolta, che vanta una introduzione dello stesso Beppe e una postfazione di Gianni Brunoro, il critico più competente dell’opera di mio padre, oltre che suo vecchio amico. Tuttavia quando gli proposi di interessarsi alla materia, inizialmente nicchiò un po’. Per Brunoro il mondo è a vignette, diciamo così, e poco altro lo entusiasma -editorialmente parlando- a parte il fumetto. Infatti nella sua postfazione lascia intendere tra le righe che il De Luca illustratore era sì bravino ma alla fine non tanto come il De Luca fumettaro.

Per tutto quanto detto sopra, ovviamente non sono d’accordo. La capacità di sintesi richiesta da una sola illustrazione comporta una padronanza dell’immagine ben più potente di quella richiesta da una sequenza “simil-cinematografica” di vignette. E’ in quel colpo solo, in quel trompe-l’oeil, che l’autore può riassumere capacità tecniche, sensibilità, intelligenza e fantasia.

Il fumettaro sta all’illustratore come il narratore sta al poeta. Non tutti i poeti sanno scrivere romanzi, ma certamente tutti i grandi romanzieri devono anche essere poeti. Se mio padre non fosse stato un eccelso illustratore, non sarebbe stato quel grande fumettaro che fu.

 

7 dicembre 2023

 

Toquinho, Aquarela

e

Natale nello spazio, 1961

 

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