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IL FUTURO NON E’ MAI QUELLO CHE TI ASPETTI

Mesi fa vengo invitata da un professore della Università degli Studi di Milano-Bicocca a scrivere
alcuni testi per addestrare, insieme ad altri, una Intelligenza Artificiale. Mettere i miei pensieri a
servizio di una macchina. Perché no? Era un eseprimento italiano per una chat bot abilitata a
conversare, da uno specifico punto di vista, con esseri umani su questioni personali e dubbi
esistenziali. Una specie di telefono amico. Avrei dovuto indirizzare le risposte del software –infinitamente variabili– alle previste provocazioni e alle domande umane, altrettanto variabili. Un esperimento di scrittura che mi intrigava molto, ma che purtroppo non sono riuscita ad avviare, per mancanza di tempo. La proposta tuttavia mi ha rassicurata, ricordandomi che dietro ogni Intelligenza Artificiale c’è sempre una Intelligenza –o presunta tale– Umana, con il suo peculiare, umanissimo modo di guardare il mondo.

Con l’occasione ho potuto approfondire l’ambito di attività del professore, a metà tra finanza e
processi decisionali. L’investitore finanziario Carlo Massironi si è dedicato per anni alla consulenza
e alla gestione patrimoniale, passando per una laurea in psicologia e studiando le scelte fatte dai
manager di fondi di investimento, arrivando infine a insegnare Psicologia dei processi decisionali
presso il Dipartimento di Giurisprudenza della “sua” università. Massironi è insomma, per molti versi,
uno specialista di futuro, con una particolare attenzione alla rivalutazione delle tante risorse del
nostro paese. Collabora infatti con l’ingegner Giorgio Garuzzo e con Fondazione Garuzzo, di
Torino, alla “Italian Technology Hall of Fame”, un progetto inteso a far conoscere le più rilevanti
realizzazioni dell’ingegno tecnologico italiano dal dopoguerra a oggi e, soprattutto, a incrementare
l’orgoglio di appartenere a un grande paese tecnologico.

Per certi versi la situazione italiana attuale è simile a quella subito dopo la seconda guerra
mondiale. Allora c’erano i disastri della guerra, oggi gli effetti sul nostro tessuto produttivo di anni
di deindustrializzazione e delocalizzazione. Allora c’era lo smarrimento identitario di un paese
uscito sconfitto dalla guerra, oggi abbiamo le nostre biografie frammentarie e affamate di senso,
dopo l’attacco frontale a ogni forma di identità e dimensione di senso portato avanti da una
ingenua lettura del decostruttivismo culturale. Forse oggi è persino un po’ più difficile—non me ne
voglia chi ha sofferto la guerra—perché abbiamo un po’ meno fantasia di lavorare e ancora qualche
soldo in tasca. Abbiamo però energie importantissime nel paese. Nel settore meccatronico,
biomedicale, aerospaziale… Piccolissime, piccole e medie imprese ancora resistono e sono
eccellenze mondiali in settori anche inediti. Un esempio? Quello delle “leghe a memoria di forma”
(particolari leghe metalliche che dopo essere state deformate riassumono la forma che gli era
originalmente stata ‘insegnata’, Ndr) inventate dalla ricerca militare americana, rimasta dormiente
per anni: una produzione che oggi è nostra, ma di cui si sa poco. Con il progetto ‘Italian
technology Hall of Fame’ ci siamo prefissi di ricordare agli italiani le cose importanti che abbiamo
fatto in passato, perché guardandole smettiamo di accontentarci di quello che facciamo oggi”.

Ma qual è la peculiarità della tecnologia italiana?
Abbiamo ingegneri incredibili, manager troppo spesso così e così, e capitale… ‘quello che
abbiamo’. Però i nostri ingegneri hanno sogni differenti da quelli degli ingegneri di tutti gli altri
paesi. Differenti da quelli di chi fa tecnologia in California, in Germania, in Corea del Sud. E la
cosa importante è che una tecnologia non è mai una tecnologia e basta. Una tecnologia deve
sempre incarnarsi in un prodotto. Ed è li, nel passaggio da tecnologia a prodotto, che avere sogni
differenti fa la differenza, fa realizzare prodotti ‘culturalmente’ differenti. Potremmo dire prodotti
con dentro una idea di essere umano che li userà differente.”

Massironi ne fa insomma una questione genius loci
Sì, perché siamo il paese di Brunelleschi e di Leonardo, ma anche il terzo paese che ha messo in
orbita un satellite dopo URSS e USA. Anche se pochisismi lo sanno. E siamo anche il paese
che ha prodotto il primo Personal Computer al mondo. Tutti pensano a Wozniak e Steve Jobs.
Invece la Olivetti Programma 101 fu la prima macchina portatile personale. La Nasa ne acquistò
una quarantina di esemplari dandoli in dotazione agli ingegneri che dovevano calcolare il primo
allunaggio. Anno 1965”.

Siamo dunque i più visionari?
Non è solo una questione di fantasia. Il discriminante è il nostro bagaglio umanistico. In Italia, a
renderci unici sono i nostri licei classici, la nostra fisica universitaria, perfino i nostri insegnanti di
arte delle medie con le loro uscite sul territorio, che instillano nei ragazzi un certo modo di vedere
il mondo. Persino un certo modo che abbiamo di perdere tempo, e un certo modo di mangiare. Un
programmatore in California o in India non vive nello stesso terreno in cui vive un ingegnere
italiano. E nonostante social globali come Instagram o Tik Tok siano macchine di omologazione
della cultura mondiale, al momento i nostri ingegneri, i nostri biologi, i nostri fisici hanno ancora sogni
differenti da quelli di tutti gli altri. Ed è proprio questa differenza culturale che crediamo vada
valorizzata. Quando alla Olivetti di Adriano Olivetti si faceva la selezione del personale, oltre a
considerare i curricula e i voti all’università, nel primo colloquio si chiedeva ai candidati come impiegassero il fine settimana. Era ben chiaro, e deve esserlo anche per noi adesso, che l’aspetto personale, in un lavoro creativo, fa la differenza”.

Ma quali sono le problematiche tipiche dei nostri tempi che rendono difficile, per le imprese italiane,
l’adeguamento all’innovazione?
In Italia abbiamo contratto da alcuni anni una diminuita disponibilità al cambiamento, una sorta
di pigrizia collettiva ad innovare. Ci siamo dimenticati che con Fiorucci abbiamo ‘insegnato’ lo
streetwear agli americani. Che il nostro ruolo nel panorama mondiale è sempre stato quello di
lanciare le mode, rompere gli schemi, stupire, che siamo sempre stati noi ‘quelli che animano la
festa’. Ci siamo dimenticati di essere il paese che ha prodotto la Ferrari 312, l’auto più
vincente in Formula 1, il paese che ha costruito la Diga di Kariba, una delle più grandi
del mondo, tra Zambia e Zimbabwe, che ha scoperto Ebla con la sua biblioteca di tavolette, che ha
inventato lo scavatore a pistoni idraulici (che oltre che un macchinario per movimentare la terra è
entrato nell’immaginario di ogni bambino del mondo), ma anche il treno pendolino, e persino il polipropilene isotattico, cioè la plastica di Giulio Natta: sogno di modernità di un secolo ingenuo e incubo ecologico di quello successivo. Abbiamo sempre avuto l’abitudine di sognare e realizzare cose grandi. Certo, oggi abbiamo diversi ostacoli ca cominciare dal quadro normativo italiano ed europeo
complicatissimo. Ma le norme sono scritte dagli umani, e se il paese si convince che dobbiamo
tornare a innovare , credo sia anche possibile trovare l’accordo politico per semplificare le regole. Poi avremmo bisogno anche di far crescere un sistema finanziario capace di fornire il capitale a chi innova, e anche questo è possibile, specialmente se noi italiani ci ricordiamo di essere particolarmente bravi a inventare il futuro”.

E quanto possiamo contare sulle università?
L’università italiana fa molto, anche in mezzo a tante difficoltà. I nostri atenei, insieme al CNR,
sono un importante elemento propulsivo. Inoltre c’è sensibilità sufficiente per connotare i corsi di
materie scientifiche di una maggiore consapevolezza culturale e ambientale. Penso a iniziative in
tal senso come quella della fondazione Evolve di Maire Tecnimont. Perché davvero siamo a un
punto di svolta storico. Lo scrittore Truman Capote ha scritto che si versano più lacrime per le
preghiere esaudite che per quelle che non esaudite. Il baratro ecologico, sul cui bordo
siamo arrivati a livello globale, non è un incidente capitato per caso. Sin dai tempi di Baudelaire e
degli altri poeti francesi, sin dalla metà dell’ottocento abbiamo sognato di dominare e piegare al
nostro volere la ‘natura matrigna’. Ora che le nostre preghiere sono state esaudite, iniziamo a
vedere gli effetti ambientali di quel sogno. E ci sembrano terribili. Ma il fatto che siamo arrivati qui
non per errore, quanto piuttosto inseguendo un nostro desiderio collettivo, è per me fonte di grande conforto. Oggi dobbiamo semplicemente decidere di inseguire un nuovo sogno, in cui ci proponiamo di
diventare figli più maturi di madre Natura. E impegnarci con la stessa energia che abbiamo messo
nel novecento per inseguire i sogni di un mondo artificiale sognati da Baudelaire e compagni”.

Se la sente, da investitore che cerca di costruire il futuro, di sfatare le previsioni tendenzialmente
apocalittiche che vedono il genere umano soccombere prima o poi di fronte alla supremazia delle
macchine?
Come investitore ho imparato che il futuro non è mai quello che ti aspetti. Questo è confortante e
insieme sconfortante. Molto probabilmente le intelligenze artificiali impiegheranno ancora un po’
di tempo per arrivare ad assomigliare a ciò che ci spaventa, al futuro che vediamo nei film di
fantascienza. Quello che credo più importante è però ciò che avverrà prima. Provo a spiegarmi con
un esempio. Prima della diffusione dei programmi di videoscrittura esisteva la categoria
professionale della dattilografa. Oggi non c’è più bisogno di un esperto che ci aiuti a trasformare
un pensiero in un testo. E intere legioni di dattilografe sono sparite in pochissimi anni. Allo stesso
modo, quest’anno sono stati per la prima volta resi disponibili programmi di intelligenza artificiale
generativa, capaci di scrivere testi anche molto accurati, di fare riassunti, e di realizzare disegni
con cognizioni da artista. Al momento, quello che fanno le intelligenze artificiali ci diverte, ma
presto la loro presenza comporterà un radicale ridisegno dei ruoli professionali. Molti esperti di
medio livello tenderanno a sparire e tante figure rischieranno di diventare inutili. Avendo
dimestichezza con le intelligenze artificiali generative, posso dire però che ciò che le connota è il fatto che per funzionare hanno bisogno di quantità davvero immense di dati di partenza. Molto al di là di
quello che chi non ci ha mai messo le mani dentro possa immaginare. Per quest credo che per
molti problemi in cui le serie storiche di dati sono limitate, o che tendono a variare molto nel
tempo, agli esperti umani resterà un qualche vantaggio. Dovremo poi imparare ad utilizzare con
profitto questi nuovi ‘collaboratori’ sfruttandoli in ciò in cui sono più bravi di noi: tritare enormi
quantitativi di informazioni. Un po’ come abbiamo fatto quando abbiamo imparato a utilizzare con
profitto i programmi di videoscrittura”.

Le previsioni sugli inevitabili mutamenti sociali innescati dalle innovazioni le conosciamo già. Da uno psicologo mi aspettavo qualcos’altro: un po’ di fiducia in più sulla “firma” comunque umana che continuerà a connotare qualsiasi sviluppo tencologico…
Io cerco di essere un italiano, ovvero un essere umano ricco di sfumature. Credo che
non si possa immaginare il futuro senza coltivare radici nel passato. Credo che le intelligenze
artificiali vadano viste come le vedono i bambini: qualcosa di interessante, nuovo, divertente. Da
adulti capita periodicamente di veder vacillare molte nostre certezze e il futuro appare talvolta
spaventoso, fino a che non si scopre che è già passato e che c’è un altro futuro che ci attende.
Dobbiamo solo riguadagnare il gusto dell’avventura che è proprio dei bambini. Non siamo un
popolo di poeti, santi e navigatori? Come fai a puntare la prua verso una qualsiasi meta ignota
senza essere ottimista? Molti di noi hanno perduto l’abitudine ad essere ottimisti forse perché è
tanto che non soffriamo più. Dopo la guerra negli anni cinquanta c’era un ottimismo esagerato. Come
quello che si vede oggi nella discarica di Malindi o in certe favelas brasiliane, dove la gente è
sempre allegra e i bambini corrono con l’aquilone persino in mezzo alla spazzatura. Anni fa ho
incontrato uno dei designer italiani che hanno fatto il Made in Italy, AG Fronzoni. Gli ho chiesto
come hanno fatto ad inventarsi il Made in Italy e porto ancora con me la sua risposta: ‘Andavamo
all’estero e ci trattavano come mentecatti perché avevamo perso la guerra. Tornavamo a Milano
che era ancora piena di macerie e pensavamo che avevano proprio ragione loro. Lo sconforto era
così tanto che abbiamo cominciato a immaginare …un paese che non c’era. Piano piano qualche
rivista, qualche impresa ha cominciato a credere in noi, ai nostri sogni… e così, siccome non
avevano un presente… non ci rimaneva che inventare un futuro. È quello che abbiamo fatto’.
Il nostro dopoguerra, il nostro boom economico meriterebbero di essere raccontati in mille serie
televisive, proprio come è stata mitizzata la conquista del West da parte degli americani….
È proprio quello che cerchiamo di fare con la nostra ‘Italian technology Hall of Fame’: mostrare
quello che come paese abbiamo realizzato ieri e quello che ancora realizziamo oggi, per provare a
contagiare tutti con la voglia di essere sempre oltraggiosamente innovativi proprio perché italiani. Un po’
come dire ‘no Italians, no party’”.

L’ottimismo in Italia è sempre in controtendenza. Tanto da risultare anacronistico. Speriamo anacronistico non in quanto nostalgico ma in quanto profetico. Grazie al professor Massironi.

 

 

18 marzo 2023

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