Da quando sono in pensione non faccio che incontrare persone che commentano, presumendo di consolarmi:
-Ma tanto, con i tuoi mille interessi, non rischi certo di annoiarti!
Tradiscono così qual è il problema della loro vita: riempire il tempo. E grazie del pensiero, ma io sono capace anche di annoiarmi.
Una cara amica, single da molti anni, felice di avere riconquistato la frequentazione con antiche compagne di scuola che la invitano spesso a cene, aperitivi, cinema, teatri etc, mi ha consegnato di recente questa considerazione:
-In fondo un uomo non serve.
Tradendo così qual è secondo lei il ruolo che un uomo deve avere nella vita di una donna: riempirle il tempo.
Riempire il tempo è un’espressione tragica, figlia dei nostri tempi tragici in cui noi umani siamo capaci solo di ingombrare armadi, credenze, giornate e silenzi di qualsiasi oggetto –anche inutile-, di qualsiasi parola, anche vuota. Tempi in cui abbiamo inventato l’inquietante espressione “tempo libero”. Sorvolando sul fatto che personalmente non ho lavorato quarant’anni solo per riempirmi le giornate (e che dunque non passerò il resto della mia vita a placare alcun horror vacui cercando riempimenti alternativi), premesso che non vorrei mai accanto a me un uomo solo perché mi intrattenesse come un film o un cartone animato, vorrei dire che la concezione del tempo come un contenitore da colmare rivela la nostra perfetta aderenza al modello del liberismo sfrenato, che assegna a merci e beni posseduti (o da possedere) la funzione esistenziale per eccellenza: confermarci chi siamo e anche che, in qualche modo, siamo. Senza niente in mano smettiamo di esistere, non abbiamo più diritto ad alcuna identità.
Il mistero del tempo ha intrattenuto per secoli schiere di filosofi. Le recenti conferme sulla relatività di Einstein, smontando il modello classico dello spazio euclideo come una cavità abitabile e misurabile, benché infinita, ci stanno proponendo, in alternativa, un concetto molto più plastico e quasi interattivo dello spazio, contagiato in modo decisivo per l’appunto dal fattore tempo. Se lo spazio non è più semplicemente una casa infinita entro cui muoverci, a maggior ragione non possiamo più permetterci di pensare il tempo come una analoga “distesa” da farcire semplicemente di azioni. Esso chiama in causa la nostra responsabilità di persone: che fare del nostro tempo? come plasmarlo, generarlo a nostra immagine?
Ho chiesto consulenza a sant’Agostino, che nelle Confessioni si domanda che cos’è il tempo. “Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere”.
E, se grazie a Dio, il tempo tende a non esistere, non abbiamo alcun bisogno di riempirlo. Lasciamoci piuttosto svuotare dai giorni che si susseguono, per arrivare al fondo non pieni, ma finalmente liberi. Come insegnava Socrate, attraverso Platone: la missione del sapiente sarà un continuo esercizio di preparazione alla morte, cioè alla liberazione dal corpo. Solo questo permetterà all’anima di raggiungere il perfetto sapere.
Non so se personalmente raggiungerò queste vette, nel frattempo provo a non sentirmi vuota nel mio vuoto, semmai responsabilmente aperta. Verso l’alto e verso il basso: grata, attenta, partecipe, solidale. Beninteso, in questo… tempo!
10 ottobre 2022