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In basso. Espressione spesso negativa. Che cosa e chi sta in basso? Le formiche, i ragni, i cani e i topi, la polvere della strada, i diseredati in fondo alla scala sociale, Lucifero nel nono girone dell’Inferno, immerso fino alla cintola nel Cocito ghiacciato. “Cadere in basso” vuol dire sprofondare in un penoso destino, subire un fallimento, ammantarsi di vergogna. Eccetera.
Ma … in basso, a veder bene, spesso ci sono tesori. Resi preziosi dalla loro stessa “invisibilità”. In basso ci sono le basi. Le fondamenta di una casa, le radici di un albero, i nostri piedi, che ci permettono di stare eretti e che regolano il nostro andare. Ci sono i fondachi, i magazzini, le cantine da cui spesso emergono reliquie familiari, cimeli dimenticati e preziose provviste… C’erano e ci sono i rifugi antiaerei e antiatomici, provvidenziali ripari in caso di guerre, ci corrono le metropolitane, fondamentali alternative al traffico delle grandi città, scorrono le importantissime reti fognarie, idriche, elettriche e energetiche. In basso ci sono i bambini, che domani cresceranno. In basso, sotto e dietro di noi, c’è il nostro passato, la nostra infanzia, che è la premessa del nostro futuro.
Il basso insomma non è solo il contrario dell’alto. Il basso è la premessa dell’alto, è l’infanzia dell’alto: ogni cosa, per crescere, ha bisogno di sperimentare il semplice e insieme complesso passaggio da uno stato di minimalità, bisogno, latenza o ristrettezza a uno stadio superiore evoluto. Il lievito insegna: appena impastato, il pane è basso.
In basso, sotto i piedi del nostro paese, di tanti paesi, ci sono tesori archeologici frequentemente misconosciuti e trascurati che spesso svelano la loro presenza all’improvviso e per caso. Il “basso” di una città come Roma, in particolare, formicola di spiritualità, per la copiosa presenza di catacombe. Gli antichissimi cimiteri dei primi secoli della cristianità sono “bassi” in due sensi: fisico e storico. Sopravvissuti nella loro martoriata e fragile bellezza sotto strati e strati di manti stradali e di asfalto, rappresentano anche le fondamenta della fede cristiana. Testimoniano come nasce la fede cristiana, in mezzo a quali difficoltà e grazie a quanta freschezza e sincerità di rappresentazione.
Mercoledi scorso 29 maggio è stato presentato il restauro della cripta di santa Cecilia nelle catacombe di san Callisto, ad opera della Fondazione Paola Droghetti e con la supervisione della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, presieduta da monsignor Pasquale Iacobone. La cappella di santa Cecilia fu scoperta a metà ottocento, insieme a un’altra cappella denominata “dei Papi”, dal giovane archeologo Giovanni Battista de Rossi, uno specialista del “basso”. E’ un piccolo scrigno pittorico, che presenta su una parete l’immagine in primo piano del Cristo pantocrator affiancata dalla più piccola figura intera di papa Urbano, guida spirituale di Cecilia, e, in alto, l’immagine della santa, sorridente, a figura intera, a braccia aperte. Accanto, il lucernario, con la raffigurazione di altri tre santi. Nella penombra odorante di muffa i volti dipinti a colori vivaci di questi personaggi sorprendono il visitatore per la loro struggente eloquenza. Dai grandi occhi scuri del Cristo, dal tenue sorriso di Cecilia, dai volti sbiaditi e appena accennati degli altri, sembrano guardarci e interrogarci, a distanza di secoli, i primi testimoni della fede, a ricordarci quanto le profondità della terra e della memoria storica possano custodire e restituirci di quello che non cambia: la libera forza dello spirito. Sepolte sotto terra, in basso, lontane dalla luce e dalla visibilità, queste semplici rappresentazioni finiscono per brillare di una loro misteriosa luce interna, in esse trasferita dalla mano del fedele diventato pittore per necessità, per l’urgenza di lasciare una traccia di tutto quello in cui credeva, un segno di speranza nonostante le difficoltà, gli ostacoli, le persecuzioni. Struggente l’intenzione, struggente il gesto, struggente l’esito di quel gesto.
Questo gioiello di arte e spiritualità paleocristiana ha ricevuto negli ultimi mesi le meticolose e qualificate cure di almeno tre donne: le restauratrici Gigliola Patrizi e Giovanna Prestipino, la direttrice dei lavori Barbara Mazzei. Senza contare le innumerevoli altre professionalità e competenze storiche, tecniche e pratiche che sono state coinvolte nell’impresa, a cominciare dall’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del CNR. Ma tre donne, soprattutto. Forse politically scorrect e perfino sessista parrà sottolineare come il lavoro di restauro, soprattutto in un ambiente difficile come una ristretta area sotterranea (clima umido, scarsità di luce e di aria) stia sempre più rivelandosi una tipicità femminile. Al di là dei luoghi comuni, un lavoro che richiede dedizione, pazienza, lunghi tempi di attesa, sacrificio, spirito di servizio, “lateralità”, dimestichezza con il nascondimento: l’esatto contrario dell’eclatanza di certi celebrati successi maschili. Un po’ come allevare bambini, preparare pranzi e cene, riordinare la casa: fatiche invisibili e destinate a ricominciare ogni giorno da capo.
Il catalogo Cantantibus Organis, edito da Gangemi, che documenta dettagliatamente questo restauro mostra il “prima” e il “dopo” dell’intervento in particolare sul volto del Cristo pantocrator. A un occhio distratto le differenze potrebbero apparire minime; a uno sguardo più attento invece, la quantità dei dettagli presenti nella versione restaurata conferma quanto il “basso”, il “poco”, il presunto “invisibile” sia decisivo per l’equilibrio e la bellezza dell’insieme. Spesso proprio ciò che non vediamo a un primo sguardo, o ciò che non vediamo affatto, ci regala la visione completa del vero, la sua comprensione. La bellezza è sempre frutto di umiltà: ci folgora grazie alla pienezza dei gesti inavvertiti che la costruiscono, per la densità di sacrifici che essa richiede. Quanti martiri sconosciuti o dimenticati hanno alimentato nei secoli il fiume della fede cristiana? Quanti anonimi fedeli si riuniscono ancora oggi in catacombe di fortuna a celebrare il loro credo, a coltivare la speranza? Quanti pregano in solitudine, in eremi oppure in conventi, anche per chi non comprende le loro intenzioni e tanto meno sente le loro voci, né mai potrebbe distinguerle nel frastuono del nostro tempo?
Ogni catacomba rivelata e visitata è di per sé un piccolo restauro. Riporta alla luce dal basso qualcosa di noi, della nostra specie, del nostro destino, tutto ciò che rischiamo di dimenticare.
1 giugno 2024