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IO PASOLINI NON L’HO MAI CAPITO

Io Pasolini non l’ho mai capito. Non so se questa affermazione è consentita, politically correct. Comunque e soprattutto non ho capito perché non l’ho mai capito. L’ho apprezzato, ovvio. E come non apprezzare Pasolini?

Come profeta l’ho apprezzato: ha guardato più avanti di noi nel destino dell’Italia, nella inconsapevolezza degli italiani, nelle contraddizioni del comunismo all’italiana, della classe operaia…

Come libero pensatore l’ho apprezzato: spirito critico, lucidità (la santa violenza, il popolo cane), l’ insofferenza ai condizionamenti e alle etichettature, ha picchiato dove doveva picchiare, perfino sulla bandiera rossa: ridiventa straccio, /e il più povero ti sventoli.

Come fratello in umanità l’ho apprezzato: il suo palpitare per il senso di finitezza, la percezione della morte ( tu mi isoli, mi dai la certezza della vita) e in questo ho visto anche l’altra faccia della sua attenzione alla fisicità al corpo e dei corpi inclusa la parte demoniaca, terrestre del corpo e dei corpi (le loro sporcizie) che nella sua estetica dovrebbe diventare assaggio di innocenza, promessa di redenzione.

Come intellettuale versatile l’ho apprezzato: politica, letteratura, giornalismo, teatro, cinema, poesia, pittura, … “Espressività totale”. Oggi parleremmo di “contaminazioni”. Anche lui del resto usò questo termine.

Ergo: come non apprezzare Pasolini.

Io l’ho apprezzato, però non l’ho mai capito, ribadisco. E’ vero, forse un artista non va capito. Di un artista  bisogna condividere, se ci si riesce, le vibrazioni. E allora forse dovrei dire che io non sono mai riuscita a condividere le vibrazioni di Pasolini. In realtà neppure a riconoscerle. Non mi ha mai emozionato. E certamente è una mia mancanza, anche se non c’è niente di nuovo sotto il sole perché esiste da anni una questione pasoliniana e Pasolini incompreso era un tema dibattuto anche quando lui era ancora in vita.

Io comunque ho fatto alcune ipotesi sul perché non l’ho mai “capito” e sul perché non mi sono mai emozionata.

1 .Forse non mi sono emozionata proprio a causa della sua versatilità, del suo … multitasking intellettuale. Una specie di dispersione espressiva, peraltro anche questa in anticipo sui tempi.

Oggi molti intellettuali sembrano indecisi circa il proprio campo di azione. O smaniosi di frequentarne molti contemporaneamente, lasciandosi provocare dalle possibilità trasversali incoraggiate dalle nuove tecnologie, per esempio. Sempre più spesso incontriamo intellettuali polmorfi. E questo, nel caso e nei tempi di Pasolini, rendeva il personaggio inclassificabile, o meglio sfuggente. E, in quanto sfuggente, anche potenzialmente  pericoloso, ancora e sempre eversivo, in qualche cosa nietzschiano, demolitore di miti al di là del bene e del male.

Forse quindi non capsico Pasolini perché quando era poeta era anche politico. Quando era romanziere era anche cineasta. Quando era cineasta era soprattutto documentarista,  Quando era pittore – non a caso mi piacerebbe approfondire il Pasolini pittore…  ecco, quando era pittore forse era soltanto Pasolini… E non a caso forse abbandonò presto la pittura. Perché l’immagine creata direttamente dalle nostre mani, senza la mediazione e l’artificio tecnologico del linguaggio – cinematografico o letterario che sia-, l’immagine prodotta attraverso il nostro solo contatto fisico con la materia nuda e cruda ci rivela esattamente, nel bene e nel male,  finalmente per ciò che siamo.

E allora proprio questo, nel caso di Pasolini, così attento alla corporeità, alla fisicità,  sarebbe uno strumento, un percorso privilegiato per snudarlo/snidarlo proprio sul suo terreno.

2. Forse non ho mai capito Pasolini perché è ancora oggi un tabù. E come potrebbe non esserlo. Come dimenticare il paradosso della sua morte, lui poeta irregolare dei paradossi del reale. Oggi che la diversità non fa più notizia, oggi che il vizio, – ma si può dire ancora questa parola?- non è più perseguibile, in quanto non più distinguibile dalla virtù, oggi che la tolleranza va universalmente praticata, e verso chiunque, mi sento in diritto di invocare tolleranza per questo mio limite: esattamente come 47  anni fa continuo a percepire la morte di Pasolini come un tabù, come  il perfetto ossimoro della sua vita (visto che già Donato Di Poce lo ha definito “ossimoro vivente”). Qualcosa di cui non si può parlare e a cui però non si può non pensare.

Ci sono persone che vengono magnificate, riscattate dalla propria morte. Che a causa della propria morte diventano santi. Quanto a Pasolini, è diventato il contro-santo della propria morte. Non riesco a emozionarmi neppure per la sua povera morte, né nel bene né nel male. Ingiudicabile e non richiedente pietà. Ma neppure posso non continuare a interrogarmi e a rabbrividire. E’ un mio limite pruriginoso, non lo escludo.

3. Forse non ho mai capito Pasolini perché non mi ha mai convinto la sua “pietà” per i suoi ragazzi di vita. Ho sempre avuto la sensazione che lui li “filmasse” (nei film ma anche nei libri), non solo con l’oggetto macchina da presa o con le sue crude scarne parole , ma con la macchina da presa del suo occhio straniero, da turista provinciale del nord. Voyeurismo camuffato. E anche questa parola si può ancora usare? “Voyeurismo? O sarebbe più onesto dire “guardoneria”?  Di nuovo: non alludo al voyeurismo praticato  in nome di quel solito tabù ( o ex tabù) che sappiamo e insieme tacciamo, ma in nome di un sospetto utilizzo strumentale del sottoproletariato metropolitano su cui lui poi avrebbe finito per apporre il suo copyright. I suoi “accattoni” sono diversi dagli “ultimi” di Zavattini o di De Sica, dai diseredati di Steinbeck, dai contadini lucani di Carlo Levi …  Sono assurti a livello di maschere, o di simboli mitologici, “iconizzati” come i mosaici bizantini. Sono diventati insomma “pasoliniani”. Una fauna che deve essergli apparsa subito funzionale alla causa della sua estetica. Posso fare questa ipotesi? Che i suoi ragazzi di vita siano stati funzionali non tanto o non solo alla denuncia civile (del degrado, dell’abbandono, del triste destino dei diseredati etc) ma alla celebrazione dell’estetica del rejetto/relitto. Il compiacimento estetico-estetizzante della miseria, la contro-celebrazione della sporcizia innocente delle vittime, da opporre alla celebrazione della grande metropoli disumana e rea di indifferenza consumistica. Valore contro valore. O disvalore contro disvalore

4. Forse non ho mai capito Pasolini perché ho cercato invano nelle sue pagine poetiche …la poesia. Che per me fa sempre rima con riscatto, speranza, promessa, alba del giorno dopo.

Fa sempre rima con qualcosa, al limite cuore/amore.

Invece la poesia di Pasolini non vuole far rima con niente.

Forse non ho mai capito Pasolini perché ho sempre pensato che un artista abbia il dovere etico di indicare la via d’uscita dal baratro, e in questo non c’è sudditanza alla realtà che tenga. Forse non ho mai saputo cogliere, nella devozione dichiarata di Pasolini alla poesia come unica traduzione autorizzata del reale, o nella sua lettura del reale come unico diritto di cittadinanza della poesia, tracce di poesia!

Forse non ho mai capito Pasolini perché nei suoi ossimori vedo una incapacità programmatica, quasi sfidante, di guardare in alto: mortale pace, rozzo splendore, prenatali vizi, Un decoro ch’è rancore, il loro rosso straccio di speranza (perfino la speranza è uno straccio!) E ancora: Mucchi di tuguri, merdoso prato, mareggiate di grattacieli/che coprono interi orizzonti Ragazzi leggeri come stracci etc Possibile che la sua fedeltà al reale sia tanto stringente da non permettergli di alzare lo sguardo oltre il soffitto basso della miseria esistenziale? E in questa miseria compiaciuta, come riconoscere e condividere la denuncia della mancanza del sacro nella società contemporanea? Nell’indicare la morte del sacro, dove è finita la nostalgia del sacro…?

5. Infine forse non ho mai capito Pasolini perché non ho mai capito  la sua metamorfosi in monumento. Qualche tempo fa il filosofo Gian Piero Jacobelli siglava un testo intitolato Al fuoco! Per una criitica della ragione monumentale. Il succo di questo saggio è che ogni monumento si oppone al movimento, per quella intrinseca necessità di fissare il tempo. Per cui nella categoria monumenti possiamo includere non solo colonne, mausolei, colossei ma anche modi di pensare, modi di dire, modi di celebrare. Che rimangono mummificati, solidificati, marmorizzati nei secoli.

Io non ho mai capito come un campione dello spirito critico e autocritico, della lucidità di giudizio, della spregiudicatezza di giudizio, della demitizzazione dei miti contemporanei in nome di un recupero della purezza del senso sacro della vita, come un irregolare così fiero della propria natura sia potuto diventare un monumento, quasi un monolite. E il dramma è che forse era diventato un monumento già prima di morire.

Forse non ho mai capito Pasolini perché temo che, da monumento, tradisca un’epoca ormai finita, in cui era naturale, doveroso celebrare la diversità, ma che oggi, in un tempo che tutto muove invece in ragione della fluidità, questo genere di monumenti divenga , a ragione, obsoleto. Ma un poeta non invecchia mai.

Non vorrei azzardare il sospetto che sia stato allora confuso, e proprio dai suoi estimatori, con il monumento al relativismo dell’Italia. Stabile ( monumentale) proprio della propria instabilità. Rigida nel suo eterno trasformismo. Assoluta nella propria fluidità… Eterna della sua stessa identità effimera. E non vorrei che, come ogni monumento, sia candidato alla dissoluzione. A sprofondare nel relativismo di un’epoca, la sua. E insomma a  tramontare. rimanendo solo superficie da imbrattare con scritte irridenti o murales osceni. Magari non gli dispiacerebbe. Ma a me, che lo ho apprezzato pur senza capirlo, invece sì.

5 marzo 2022