Per ascoltare invece di leggere
Da sempre la cultura visiva patisce da noi in occidente il complesso dell’ultimogenita. Siamo eredi dell’iconoclastia: la scuola insegna a parlare, a far di conto e ad astrarre. Discipline nobili. Non ci insegna a guardare, a potenziare e qualificare lo sguardo (e tanto meno l’ascolto).
Quasi imbarazzante, nella patria di Giotto e Michelangelo, constatare che i programmi scolastici prevedono un paio d’ore di educazione artistica alle medie, e sì e no un’ora di storia dell’arte nei licei. Stesso dicasi per l’educazione musicale, che dopo le medie, scompare in qualsiasi percorso di studi.
L’immagine fa paura, è un fatto. Non ci viene insegnato a esercitare criticamente lo sguardo – se la scuola lo facesse scopriremmo forse anche di saper disegnare – ma piuttosto ad anestetizzarlo.
Peraltro, la paradossale, contemporanea diffusione della cosiddetta civiltà delle immagini fa il resto: da niente a troppo. E così l’anestesia visiva è assicurata. Diseducati a guardare, veniamo invasi da immagini che non capiamo e ci stordiscono. Fatale destino: da troppo a niente.
Questa incomprensibile e inavvertita deriva culturale fa sì che, di fronte a chi invece, per sua fortuna, o per caso o disposizione naturale ha imparato a guardare il mondo, ci sentiamo in imbarazzo. Di fronte a chi esercita il pensiero visivo, la maggioranza di noi può avvertire un vago senso di spaesamento e di inferiorità.
Infatti chi sa guardare sta un gradino più su rispetto a chi si limita a pensare (ammesso che davvero pensi), confinato al sicuro dentro le proprie elaborazioni mentali
E invece vige il diktat opposto, scientemente elaborato non solo dal mondo della scuola o dell’accademia, ma anche da un inespresso main stream sotterraneo: ci hanno convinti che guardare sia un fatto accessorio.
La prova di questa tragica mancata educazione, sta nel fatto che. come non siamo addestrati a guardare, non siamo neppure addestrati a essere guardati
Perciò l’incontro con il “visionario” (chi sa vedere) può risultare disturbante.
E’ vero, desideriamo essere guardati sui social, coi selfie etc. Ma in chiave autocelebrativa. Un conto è essere ammirati in foto autocostruite, in capolavori di ritocchi digitali, altra storia è essere guardati negli occhi
Rapporto inversamente proporzionale: tanto più ci esibiamo, sperando di generare adorazione o addirittura invidia, tanto più ci disorienta chi ci guarda per riconoscerci nella nostra nuda e cruda verità.
Nel bipolarismo che caratterizza il nostro rapporto con il semplice, originario atto del vedere, sta una buona parte del disagio contemporaneo che ci porta a scambiare lucciole per lanterne, a confondere pacifisti con guerrafondai, a non sapere più distinguere il bene dal male.
6 marzo 2025