Da qualche mese Elon Musk sta propagandando l’installazione dei suoi satelliti Starlink in Iran per eludere le restrizioni imposte dal governo locale all’accesso a internet: un’impresa sostenuta dal suo paese, gli Stati Uniti , «per promuovere la libertà di Internet e il libero flusso di informazioni» in Iran. Mi piacerebbe chiedere a Elon Musk che cosa intende con “libero flusso di informazioni”. Libero per chi? E oggi chi è davvero libero di fronte a questo flusso, di fronte all’informazione in genere? Insomma di quale libertà si parla? Di quella di chi informa o di chi viene informato? Se gli Stati Uniti e noi occidentali vogliamo essere liberi di informare a modo nostro, anche altri paesi dovrebbero poter pretendere la medesima libertà. Anzi avrebbero dovuto. Di informare e di essere informati a modo loro.
Immaginiamo che i più potenti motori di ricerca e le più forti aziende informatiche del mondo non fossero stati in mano, fin dall’inizio della loro storia, a proprietari statunitensi, ma piuttosto iraniani o palestinesi. E’ da credere che nel giro degli ultimo trent’anni anche le donne in occidente avrebbero convenuto sull’opportunità di indossare il velo. Se la globalizzazione fosse partita da est e non da ovest, forse oggi saremmo noi italiane, francesi, tedesche o canadesi a scendere in piazza per rivendicare l’uso obbligatorio del burka o dello chador.
Un flusso di informazioni è libero se è circolare, non se è a senso unico. Se è a senso unico non è libero, ma condizionato dall’unica direzione di provenienza.
Esagero? Forse. Ma rincarare con la tecnologia satellitare la violenza culturale già compiuta in Iran (e anche altrove) grazie a un’informazione globalizzata a senso unico non contribuirà certo a spegnere le proteste, gli arresti e le uccisioni di liberi cittadini, al contrario aggraverà la tensione. Nell’orizzonte di Musk c’è solo la normalizzazione definitiva, come è ovvio, ovvero il colpo di grazia finale a una cultura millenaria, di cui molti sembrano immemori. (Cancel Culture? La si vede solo dove si vuole.) Forse, dal suo punto di vista, ha ragione, visto che indietro non si può tornare, visto che oramai i liberi cittadini di cui sopra non sono più liberi per niente, ma contaminati dai nostri modelli consumistici, materialistici, etc. Tanto vale “finirli” in quell’unico senso che conosciamo noi e che sarà utile a noi nei tempi a venire. Purtroppo, storditi dalle nostre polpette avvelenate, anche in Iran tutti sembrano confondere la luna col dito del poeta che la indica, accontentandosi di scimmiottare i nostri cortei di protesta e perdendo di vista la peggiore imposizione da essi subita, l’unica contro cui varrebbe la pena di avviare cortei e manifestazioni. (Fartta salva poi anche la volontà di evolvere liberamente verso stili di vita diversi da quelli tradizionali).
Per questo, a ben guardare, solo apparentemente gli iraniani sono in guerra tra di loro. Nella realtà, siamo noi ad averli infestati col virus dei nostri stili di vita (che cominciano ad apparire perversi perfino a noi che li abbiamo inventati, figurarsi a chi se li è visti scaraventare addosso dalla televisione e da Internet). E se noi siamo un virus per altri, accettiamo il fatto che un organismo attaccato metta in campo come può tutte le proprie difese e autodifese. Per ora il campo di battaglia è solo esso stesso, domani il contro-contagio potrebbe estendersi verso chissà cosa e chissà chi. Noi compresi. Le Twin Towers dovrebbero ricordarci qualcosa. (E lo scontro di civiltà non c’entra. Si può parlare di “scontro” quando si combatte ad armi pari, non quando, anche grazie alla tecnologia, si invade il vicino di casa).
Perciò smettiamola di coltivare ipocriti alibi: gli scontri in Iran non sono scaturiti dall’uccisione della povera Masha Amini. Ma dall’uccisione di una cultura. I cui mandanti e sicari, per soldi, siamo ancora e sempre noi.
27 dicembre 2022