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L’ORDINE DEL TEMPO, IL DISORDINE DI UN FILM

Che occasione sprecata per il cinema italiano. Immaginare la fine del mondo. Mi piacerebbe tanto ascoltare le ragioni di chi ha apprezzato l’ultimo film di Liliana Cavani, L’ordine del tempo, ispirato ai testi di Carlo Rovelli e da lui co-firmato per la sceneggiatura. Perché io di ragioni non ne ho vista nemmeno una e mi sono annoiata.

?Che il professore di fisica, autore di libri molto popolari e nelle intenzioni divulgativi si sia montato la testa? Forse è importante che i fisici continuino a fare i fisici, lasciando agli sceneggiatori l’esclusiva di lavorare alle sceneggiature.

Elenco le ragioni della mia noia “arrabbiata”, dove la rabbia dipende appunto dall’occasione mancata di trattare coralmente un tema universale.

Il casting. In genere nei film italiani vediamo sempre gli stessi attori, raramente facce e talenti nuovi. E invece ve ne sarebbero tanti. Quegli stessi che vediamo sempre, per giunta sono qui impiegati male, buoni per una commedia, ma totalmente fuori posto in una pellicola con ambizioni impegnate.

La trama. Inesistente: il mondo sta per finire e allora abbiamo l’ultima occasione di essere autentici. Carrellata di pensierini prevedibili e di urticanti banalità. Senza contare le sottovicende lasciate in sospeso. Forse, se la consulenza scientifica al film l’avesse potuta dare Einstein in persona, il concetto chiave che il tempo non esiste (e che comunque non dobbiamo sprecare occasioni) ci sarebbe arrivato molto più chiaro, visto che il padre della relatività lo aveva affermato già diversi decenni prima di Rovelli. Il film si rivela solo un pretesto per snocciolare le solite “Piccole bugie tra amici”. Prima di entrare in sala, ero certa che avrei visto una brutta copia di quel film francese così intitolato, vecchio di oltre dieci anni e che era vecchio già quando uscì, a causa dello spudorato minimalismo con pretese di pellicola intimista e corale, di fatto totalmente impermeabile alla realtà vera, ai drammi della cronaca e della storia.

I lapsus classisti. In genere i registi di formazione “sinistra” se ne lasciano sfuggire ingenuamente in continuazione e la cosa stupisce davvero: in pellicole di questo tipo i protagonisti sono sempre professionisti affermati – giornalisti, architetti, docenti universitari, scienziati, scrittori, mai operai, negozianti o impiegati…- che non devono mai vedersela con la pensione, con l’affitto, con l’aumento de prezzi, né con i pannoloni dei genitori anziani o le bizze dei figli piccoli. Sono sempre personaggi teorici, irreali, beati, che vivono in ville pazzesche sul mare, che guidano le BMW e restano buonisticamente imperturbabili se la moglie li lascia o se scoprono che il marito ha avuto figli fuori dal matrimonio. Però la cameriera peruviana con tanto di divisa si guardano bene dal coinvolgerla alla pari nelle loro riflessioni da fine del mondo. Le concedono magnanimamente di tornare a casa vista la presunta emergenza del momento, a patto che torni in servizio subito dopo, non l’autorizzano certo ad avere un cervello o una sensibilità umana.

I lapsus snobistici. Quanti piedi nudi, in questo film. Solo per dirne una. Esageratamente esposti, a veicolare il preteso intimismo di cui sopra, una affettazione di disinvoltura e di cameratismo ormai totalmente fuori tempo, che tradisce il rimpianto per le comuni degli anni settanta. Solo che sono passati diversi decenni e le comuni non hanno nulla a che vedere con la ville extralusso sul mare. Che dire poi delle relazioni fra i personaggi? Sempre relazioni amicali “sciolte” fra coetanei poco cresciuti e comunque nostalgici degli anni spensierati del liceo: non compare mai uno zio con il Parkinson, non si parla mai di un nonno fuggito con la badante cui correre dietro, di un preadolescente in crisi con la matematica, insomma di problemi veri. Banali e veri, ma non per questo meno drammatici. Se poi si deve cogliere l’ccasione per ascoltare un musicista chi si ascolta? Ma Leonard Cohen naturalmente! E se si deve citare una sequenza cinematografica? Ma La febbre dell’oro di Charlie Chaplin, ovviamente! Che noia. I personaggi sarebbero risultati molto più simpatici se si fossero mostrati fan di Pupo, dei Cugini di Campagna o dei cinepanettoni con Boldi e De Sica.

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In caso la Cavani e Rovelli non lo sapessero, l’immenso De Sica padre, più di sessant’anni fa, in un rigurgito di neorealismo venato di divertito surrealismo, immaginò, insieme a Cesare Zavattini, la fine del mondo nel film Il giudizio universale, e senza bisogno della consulenza di qualsivoglia star scientifica del tempo. In quel film davvero c’era lo stupore, il disorientamento, ma c’era soprattutto il volgo, la gente vera, come pure il disincanto colpevole di fronte allo sfuggente senso della vita, l’indifferenza crassa ai drammi (come in Un marziano a Roma di Flaiano), ma c’era perfino e soprattutto –udite udite!- l’ironia, quella rara virtù che i sedicenti intellettuali di oggi fanno  fatica a comprendere e men che meno a praticare.

Come disse il primo presidente della neonata repubblica ceca Vaclav Havel: “chi si prende troppo sul serio corre sempre il rischio di apparire ridicolo”. Ecco: un film che si è preso un po’ troppo sul serio. E dunque, con buona pace della Cavani e di Rovelli, un film un po’ ridicolo.

 

 

4 settembre 2023

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