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MA ESSERE DONNE NON E’ UN MERITO

  Stiamo assistendo in questi giorni alle manifestazioni di protesta in Iran a seguito della clamorosa uccisone, da parte della polizia, della ragazza che non indossava il velo. Occasione per riaccendere l’orgoglio femminile e femminista in tutto il mondo. Dispiace per le vittime del regime, dispiace che qualsiasi regime limiti quelle che in occidente appaiono libertà individuali, ma dispiace anche e soprattutto che parlare di donne comporti quasi sempre, negli ultimi anni, parlare di drammi, tragedie, uccisioni, soprusi, violenze. Si dirà: è la conferma che le donne sono ovunque perseguitate in quanto donne. Da donna, sono autorizzata a dire che il vittimismo femminile non mi convince e non mi piace? E’ giusto denunciare e difendere chi è più fragile, ma nelle modalità vi sono dei rischi da evitare accuratamente. Mi sono già espressa sulla perfida dinamica persecutore/vittima, che prima o poi si capovolge. Quando le vittime arrivano a denunciare i propri persecutori, si può star certi che i persecutori diventeranno a loro volta vittime, prima o poi: certo non subendo le stesse violenze inferte, ma essendo messi giustamente e universalmente alla gogna.

Ovviamente non entro nel merito delle singole questioni: è ovvio che la sorte delle povere ragazze iraniane, o della adolescente pakistana uccisa in Italia dallo zio perché rifiutava un matrimonio combinato, o delle tante italiane ed europee sfregiate, bruciate vive o accoltellate da compagni impazziti dalla gelosia fanno stringere il cuore e gridano vendetta. La domanda che pongo è un’altra: perché accentuare il vittimismo femminile? Non equivale a perpetuare lo stereotipo della donna debole? Dopo anni di rabbiosi e orgogliosi cortei femministi, dopo la stagione delle donne in carriera travestite da uomo, siamo dunque tornati a stuzzicare le corde della pietà? Non mi piace fare pietà, non mi piace solleticare i sensi di colpa maschili, non mi piace essere ideologizzata in quanto donna. Vorrei essere ideologizzata, esaltata o perseguitata, in quanto persona, in forza delle mie convinzioni o dei miei comportamenti. E’ vero che, quando compaiono all’orizzonte geniali scienziate o imprenditrici o artiste o leader politiche si plaude e ci si entusiasma, ma è quasi come se non si volesse credere fino in fondo alle loro capacità, stupendosi che siano arrivate al successo, preferendo così compiacersi di coltivare comunque lo stereotipo della donna perseguitata, emarginata, ostacolata nelle sue aspirazioni. Un tempo vittima del cliché “angelo del focolare”, oggi vittima del maschio persecutore o di una società ancora profondamente maschista. Fatte salve quelle poche che riescono, da ritenersi eroine.

Non sfugge a questa logica il bel libro Questa non è una poesia, della mia amica Lucrezia Rubini, storica e critica d’arte.  Che dichiara di non essere una poetessa (in realtà lei preferisce il maschile “poeta”!), ma di avere “scritto per la prima volta di getto in pochissimo tempo queste poesie”. Ma dunque : poesie o non poesie? La provocazione del titolo ci scontra con la sana ambizione alla sintesi emotiva. Una contraddizione evidentemente voluta, che permette a Lucrezia di declinare in vario modo il tema della femminilità. Ed ecco gli argomenti:  stupro, violenza, incesto, pedofilia… Davvero qeusta non è una poesia, ma un dramma, anzi una serie di drammi. Un poeta disse: “In ogni donna c’è qualcosa che piange”. E’ vero, nel corpo e nell’anima della donna si annidano insieme forza immane e tragedia: la prosecuzione e la custodia della vita, con tutto quello che questo delicato e potente compito comporta, soprattutto nel nostro tempo di enormi cambiamenti sociali. Sottolienando con forza e sofferta partecipazione l’orrore per certi fatti di cronaca, Lucrezia sembra ancora una volta confermare che nella coscienza delle donne non ci sia insomma spazio per altro che per il compiacimento del male subìto. Tuttavia, in questo dramma vissuto e rivissuto, Lucrezia coglie anche lo spunto del suo superamento. Scrive, a proposito dei suoi testi: “Certamente si tratta di non-poesie, non consolatorie, ma che affondano nei meandri più profondi, intoccati e intoccabili, dell’anima, per un percorso di catarsi e di riscatto, quale ‘cura’ specifica per l’umanità, la chiamerò ‘animaterapia’.”

Da professionista a tutto tondo, che ha arricchito il suo percorso professionale di insegnante e critica d’arte con svariati interessi e competenze, Lucrezia Rubini ha tutti i titoli per presentarsi come esperta e terapeuta “d’anima”. In quanto donna, mi auguro dunque che possa sviluppare, nel suo prossimo impegno letterario, il tema della potenza dell’anima femminile, indipendentemente dagli stereotipi vecchi e nuovi. Se essere donna non deve rappresentare una colpa, non può neppure essere un merito. Se vogliamo davvero liberarci dal “peso” del nostro sesso (ammesso che sia un peso), dobbiamo forse smettere, per prime noi stesse, di farcene ossessionare.

 

7 ottobre 2022

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