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QUANTO E’ URTICANTE LA PAROLA “PACE”

Bisognerebbe citarla solo di sfuggita, con moderazione, proprio quando non se ne può fare a meno, quando è proprio certo che la guerra è finita, dando notizia degli eventuali relativi armistizi o, trattati, per l’appunto, di pace. Per il resto, perfavore, non nominiamo il nome della pace invano. Quando Corrado (sì, proprio lui, il presentatore di tanti futili show televisivi del secolo scorso) annunciò alla radio nel 1945 che la guerra era finita, non ebbe infatti alcun bisogno di nominarla. Invece “pace” è ormai il mantra di insegnanti, politici, preti, pacifisti della prima e dell’ultim’ora, musicisti fricchettoni, sociologi, santoni, boy scout, stregoni, pubblicitari, ciarlatani televisivi, pontefici e, purtroppo, alunni di scuole di ogni ordine e grado, periodicamente chiamati a esprimersi in stucchevoli, conformistici e astratti temi sull’argomento, finendo per crescere nell’ipocrita presunzione che la pace nel mondo sia possibile.

Ma la si nomina tanto spesso e tanto a sproposito proprio perché non c’è, perché a ragione la si ritiene –senza ammetterlo- un’astrazione, qualcosa di meno di un’utopia (che prevederebbe se non altro un programma, un’ideologia, un piano di azione o di pensiero). La si evoca come una divinità pagana che possa risolvere magicamente le nostre misere vicende terrene e ci emancipi dal senso di responsabilità personale di non litigare col vicino di casa o di non rispondere alle provocazioni dell’automobilista che ci sorprassa con prepotenza.

Non sono una guerrafondaia, ma neppure un’ illusa. Quando avevo quattordici anni don Franco Teani, insegnante di religione (all’epoca disciplina obbligatoria) chiese a noi ragazzini del Ginnasio Liceo Mamiani di Roma suggerimenti e proposte per raggiungere la cosiddetta “pace nel mondo”. Correva l’anno di Imagine di John Lennon, il 1971, dunque certi sogni erano pane quotidiano per chiunque, in buona o in mala fede. Lo lasciai inebetito rispondendogli di non prenderci e di non prendersi in giro: le guerre ci saranno sempre, l’umanità non è fatta per gli arcobaleni.

Non so se si riprese mai, se lasciò il sacerdozio (non credo) o soltanto le sue illusioni. ( Non credo neppure questo). Da allora, poco è cambiato, anzi. E hai voglia Bergoglio a plagiare Spinoza come se niente fosse: “La pace non è soltanto assenza di guerra, ma una condizione generale nella quale la persona umana è in armonia con sé stessa, in armonia con la natura e in armonia con gli altri”. (Angelus del 4 gennaio 2015). Hai voglia a parlare della pace come di un cammino da percorrere, un work in progress punteggiato da sforzi più o meno risolutivi. Potremo essere pacifici, armonici, sintonici e miti quanto ci pare, ma la pace rimarrà un concetto vago e un’ipocrisia, specie nella pretesa di renderla una condizione planetaria.

La guerra in Ucraina? Aggressione e resistenza? O piuttosto predisposizione naturale dell’uomo, singolo o in gruppo, ad alimentare qualsiasi pretesto per attaccare al fine di non essere attaccato? Per tenere a bada la paura nei confronti di una indefinibile ma onnipresente minaccia? Per tutelare la propria sopravvivenza anche a scapito di quella altrui? Poi che importa chi ha cominciato per primo. Basta che l’altro risponda e il gioco è fatto.

Durante la prima clausura della pandemia, nella primavera del 2020, si gridò allo scandalo perché adolescenti sfrenati si riunivano nei parchi pubblici solo per darsele di santa ragione. Gli immancabili soloni pontificarono sulla necessità di riportarli energicamente sulla retta via, sedando  certi insani impulsi attraverso il ragionamento e la comprensione, l’educazione alla non-violenza. Non fingiamo, perfavore. Chi inventò il termine “non-violenza” era uno che –fatti salvi i suoi meriti- non aveva mezzi per contrastare la violenza altrui e non gli restava che alzare bandiera bianca, cercando poi di nobilitare la resa agli occhi della sua gente. Anche la roccia si fa da parte quando è investita dalla lava. Possibile che nelle scazzottate di quei bravi ragazzi che in quei mesi non potevano sfogarsi in discoteca, al bar, in palestra o facendo l’amore nessuno ha voluto vedere il naturale bisogno di aggressività dell’essere umano? Possibile che nessuno ha trovato migliore soluzione da suggerire se non l’inibizione di quello slancio naturale? I maschi della mia generazione giocavano “a soldatini”. I ragazzi e molti quasi-adulti di oggi li chiamano “giochi di ruolo”, ma non è forse sempre la stessa storia?

Si invoca il rispetto della natura. Giusto. Nella natura umana c’è l’istinto all’aggressione, alla difesa, alla violenza e quindi alla guerra. E’ ora di riconoscerlo serenamente. E di accettare che tale istinto si potrà al massimo indirizzare, non estirpare.

Per tutto questo, perfavore, non nominiamo più la parola pace invano. La pace è una finzione, una categoria di comodo, una consolazione per le nostre coscienze. Non alleviamo nell’ipocrita speranza del contrario intere generazioni di bambini costretti ad adeguarsi a conformistiche illusioni. Rendiamoli consapevoli che giocare alla guerra non comporta sentirsi in colpa, che non è politicamente scorretto, ma al contrario sano e necessario. Perché da qualche parte la lava umana deve essere indirizzata, appunto. Facciamo semmai in modo che resti il più spesso possibile un gioco o al massimo un massacro breve ed “educato”. Limitando i danni, per quanto possibile. In Ucraina sarebbe già ora di finirla, per esempio. Come cantava De Gregori: “Gesù, Gesù Bambino piccino picciò, fa che venga la guerra prima che si può … Fa che sia pulita come una ferita, e che sia breve come un fiocco di neve”.

 

17 marzo 2022