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TERZA

Quando’ero bambina, correndo nella pineta della scuola, cadevo infinite volte. Mi sbucciavo le ginocchia, ero sempre piena di graffi e cicatrici. Faceva parte del gioco. Una disinfettata in infermeria, un cerotto, e tornavo a correre. Instabilità? Eccessiva seduzione nei confronti della forza di gravità, nei confronti della terra? Al liceo, mi attiravano le leggi della meccanica e benedivo Galileo per quelle sue fondamentali intuizioni: Un corpo che cade si muove di moto rettilineo uniformemente accelerato. In assenza di aria tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione. In presenza d’aria, a causa dell’attrito, i corpi possono cadere con leggi orarie differenti da quelle del moto uniformemente accelerato… Eccetera.

Cadere è un’arte. Lo sanno gli stuntmen, ingaggiati appositamente dalle produzioni cinematografiche per cadere, ruzzolare e caracollare al posto degli attori. Lo sanno i cultori del judo e di altre arti marziali, o degli stessi paracadutisti… Qualcuno ha detto che l’importante non è cadere ma… non rimanere caduti. La maggiore arte del cadere è l’attimo successivo, quello del volersi e sapersi rialzare.

Poi invece ci sono cadute che valgono di per sé, che sottolineano quello che io forse, da bambina ignara, già intuivo: l’attrattiva del basso, ovvero la celebrazione dell’umiltà, il promemoria che apparteniamo alla terra.

Terza stazione: Gesù cade per la prima volta. Un attimo, e le gambe non tengono più. Forse anche lui si sarà sbucciato un ginocchio, e un’infima goccia di sangue avrà toccato la pietra, si sarà impastata con la sabbia. Cadere, temere, sfaldarsi. Fidarsi e affidarsi alla nostra finitudine.

 

27 marzo 2023

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