Una sera d’ottobre, il giorno 16, fine anni settanta. Dolce come sono a volte le sere d’ottobre a Roma. Tornavo dall’università col mio ragazzo (che poi sarebbe diventato mio marito). Svagati, disimpegnati, la testa piena solo di sterili discussioni accademiche, di teorie. Neppure il sequestro Moro, esattamente sette mesi prima (16 marzo) ci aveva resi consapevoli di quello che stava succedendo in questo paese, nel mondo.
-Che si fa? Si va in san Pietro a vedere se fanno il papa nuovo?
Era come chiedersi che film avremmo visto quella sera in tivù, o se andare a prendere un aperitivo o una pizza. Qualcosa ci spinse invece in quella piazza. Eravamo dunque tra quelli che videro la fumata bianca, ed eravamo lì quando, poco dopo l’habemus papam, venne pronunciato quel nome strano, che generò un secondo di incertezza nella folla, prima dell’esplosione dell’inevitabile applauso. Straniero, senz’altro. Ma di dove?
Polacco, avremmo saputo dopo. E che si sapeva della Polonia, in quegli anni, da noi in Italia? Che era il paese che probabilmente aveva patito più di tutti gli altri durante la seconda guerra mondiale, visto che Hitler aveva cominicato proprio da lì, il suo delirio. Che ora era una terra seppellita al di là della cortina di ferro, praticamente irraggiungibile, davvero un” paese lontano”. Ce ne tornammo allegramente a casa, senza neppure immaginare quanto la storia sarebbe cambiata anche grazie a quel giovane papa polacco.
Nel tempo, avrei scoperto che o lo si è molto amato o molto detestato, senza mezze misure. Che in quasi trent’anni di pontificato ha avuto i suoi acclamatori e i suoi detrattori, soprattutto chi lo ha accusato di essere troppo “politico”. E se fosse stata la sua stagione ad essere stata inevitabilmente politica? Se fossero stati i fatti a renderlo compartecipe necessario di quel cambiamento inevitabile che vide cadere il blocco sovietico, sovvertendo le carte in tutta Europa?
Con Wojtyła sul trono di Pietro scoprimmo che i lavavetri ai nostri semafori erano polacchi, che gli operai polacchi nel loro paese si stavano ribellando al regime comunista (assurdo paradosso!) , che in Italia c’erano fior di intellettuali polacchi espatriati, e imparammo anche a pronunciare il nome di Wisława Szymborska (Nobel letteratura 1996), che non a caso aveva scritto:
Siamo figli dell’epoca,
l’epoca è politica.
Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.
Figurarsi se poteva non essere politico il ruolo di un papa in un mondo che all’epoca era spaccato in due ideologie tanto contrapposte. Che peraltro in Italia, pochi mesi prima, Aldo Moro aveva invano tentato di comporre in uno storico compromesso, scatenando la reazione di chissà chi, per mano di quattro brigatisti illusi.
Solo quattro anni dopo io incominciai a lavorare per il giovane papa, nella sua Radio. Continuavo a essere inconsapevole, superficiale, incapace di leggere la storia tra le righe, nonostante tutte le mie teorie, nonostante quei tragici anni di piombo. Però lo vidi da vicino, ero chiamata a sintetizzare i suoi discorsi, mi trovavo ad ascoltare le vibrazioni della sua voce. A me miscredente è arrivata così, negli anni, l’ondata potente della sua fede, che non ha vacillato mai: non in seguito alle precoci perdite di madre, fratello, padre, non alla persecuzione nazista prima, non alla persecuzione comunista dopo. E neppure negli ultimi anni della malattia e del decadimento fisico.
La fede degli altri non è sempre incomprensibile a un miscredente. Da miscredente, io sono certa oggi di avere incontrato un santo. Che nella sua vita ha portato i segni di un’epoca fortemente politica, che l’ha vista dipanarsi e compiersi tra mille sconquassi e rivolgimenti epocali, che ha avuto sempre la forza di leggere tutto in una chiave soprannaturale e soprattutto attenta alla dignità dell’uomo.
Le poche volte che l’ho incontrato faccia a faccia, al termine di qualche radiocronaca in basilica vaticana o durante i suoi viaggi, mi ha sempre fulminata con il suo sguardo penetrante. Che in quel momento era solo per me, mai di circostanza. Sembrava sapere sempre esattamente chi fossi e che cosa volessi dalla vita, e di saperlo anche meglio di me. Forse sarà stato un papa politico, ma certo è stato soprattutto un papa, ovvero un uomo sprituale, il cui carisma ha sfondato muri e muri di tiepidezza (a cominciare dalla mia) e di diffidenza.
Per un altro caso, mi trovai in piazza anche al momento della sua morte. Con la famiglia, inspiegabilmente, fummo come calamitati, arrivando a unirci a quella strana folla silenziosa e composta che attendeva sotto la sua finestra. (Che strano, specie nella caotica Roma, trovarsi a far parte di una folla immensa che non parla, che quasi non respira…). Girava in quei momenti la leggenda sulle ultime parole da lui pronunciate sul letto di morte, dirette – si disse allora- ai suoi papaboys. “Vi ho chiamati e siete venuti”. Fu proprio come se ci avesse chiamati, eravamo sempre noi, in fondo, i suoi ragazzi di quasi trent’anni prima.
E poi, dopo il papa polacco, venne il papa tedesco. Affratellati così, dai giochi dello Spirito Santo. Fu incredibile quell’arcobaleno ad Auschwitz, proprio sul confine tra i loro due paesi, quando Benedetto XVI , nel maggio 2006, disse: “Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco”. La storia si è conclusa.
16 ottobre 2022