Noi italiani siamo bravissimi a parlare male di noi stessi. Un popolo di mugugnatori, su tutto critici e autocritici. Ci scagliamo volentieri –spesso a ragione- contro lo stato, contro i politici, contro il comune confinante, contro la scuola, la sanità, la stampa… Niente si salva dalla furia autodenigratrice di uno dei più praticati sport nazionali. Come se non credessimo del tutto in noi stessi, coltivando una rabbia indiscriminata. Eppure, quanti morti conta la nascita del regno e poi della repubblica italiani? Quanto costò la conquista dell’ identità e dell’autonomia nazionali? Se ci rendessimo conto di quale offesa rechiamo così al sacrificio degli eroi risorgimentali e della resistenza, forse risuciremmo ad andare un po’ più orgogliosi della nostra patria. Nella realtà, guai a nominare quella parola, eredità fascista, da cancellare.
Ma da che cosa nasce questo sfiduciato disincanto di noi italiani verso noi stessi? Che l’Italia sia un concetto teorico fin dall’antichità, più che una effettiva realtà territoriale-sociale-culturale lo sanno tutti, come pure che abbiano convissuto sulla penisola popolazioni di origini diverse. Che nei secoli poi la nostra terra sia stata spartita e frantumata fra imperi e regni stranieri è pure un fatto bene assimilato. Partiamo insomma svantaggiati nella costruzione di una coscienza nazionale: l’Italia è sempre stata un puzzle di diverse identità. Di qui forse il nostro feroce campanilismo.
Ma avviicniamoci ai tempi nostri. Dalla seconda guerra mondiale, l’Italia è diventata di necessità un paese satellite degli Stati Uniti. Dallo sbarco ad Anzio in poi, passando per la coca cola, i western, i blue-jeans e il rock’n roll fino alle basi militari Nato, non abbiamo mai smesso di masticare chewing-gum e di parlare americano, guardando a ovest. Non ne abbiamo potuto proprio fare a meno. Debito di gratitudine? Lealtà politica? Naturale colonizzazione culturale? Abbiamo importato di tutto da oltreoceano, ci siamo uniformati in tutto. Ma, parallelamente all’inesorabile processo di americanizzazione della nostra società, una certa intellighenzia nostrana, alleata spesso fintamente con la classe operaia, ha iniziato a guardare a est, al mito del socialismo realizzato. Non erano solo i comunisti di casa nostra a lasciarsi sedurre dai modelli marxisti, ma anche chi non si impegnava fattivamente in politica. Con il Sessantotto, un’intera società si è lasciata trasportare dal mito radical della tutela delle classi più deboli, subendo e diffondendo –spesso senza conoscere la realtà- il magnetismo di oltre cortina.
Legata all’ovest, ma sedotta dall’est, l’Italia è diventata politicamente schizofrenica. Eccolo il nostro problema! Non potendo resistere né alle seduzioni del liberismo da una parte (il boom economico!), né ai miti intellettualoidi dell’ideologia marxista, si è ulteriormente spaccata in se stessa, ricreando al suo interno le comode –ma anche drammatiche- contrapposizioni medioevali (guelfi e ghibellini). Questa lacerazione ideologica è andata a combaciare perfettamente con l’imbarazzante collocazione geografica della penisola, nel bel mezzo del Mediterraneo, equidistante dalle due metà del mondo. Non che prima del secondo dopoguerra non si fosse accorto nessuno di questa posizione da una parte invidiabile dall’altra pericolosa, ma certo a partire dalla guerra fredda (e nuovamente oggi) tale collocazione ha assunto una rilevanza ancora più forte. Banchina naturale nel Mediterraneo, poteva il nostro paese non coltivare un inevitabile strabismo politico-ideologico?
Aldo Moro provò a mediare l’in-mediabile. Le convergenze parallele, il governo DC sostenuto a sinistra etc. Sappiamo come è finita. E questa impronta di interna inconciliabilità ci è come rimasta addosso, siamo e restiamo divisi, bipolari. Ed è naturale che tale felice-infelice dispozione ci porti alla mercé di chiunque, colonizzabili e “seducibili” da tutti e quattro i punti cardinali. Un tempo gli stranieri si spartivano soltanto le “nostre” terre (feudi, regni, ducati); oggi fagocitano imprese, marchi, squadre di calcio, capacità artigianali, vini e parmigiano, cose e persone, idee. Manca poco che la storiella dello straniero cui vendere Fontana di Trevi si ribalterà tragicamente: verrà davvero qualcuno a comperarla, ma con tutte le carte in regola. E allora i truffati saremo proprio noi. Fontana di Trevi come il Duomo di Milano, la Torre di Pisa o il teatro di Taormina ci verranno sotratti sotto al naso e noi non sapremo, non vorremo opporci, complici e felici, ammaliati solo dal denaro.
E’ come se ciascun italiano fosse molto ben cosciente dell’inevitabile, atavico smembramento, e con la gofaggine di Pulcinella e la malizia di Arlecchino preferisse assecondare questo paradossale destino di separazione interna arrivando a disconoscere le proprie stesse ricchezze, vivendo come incapace di vederle e perfino indifferente alla possibilità di perderle, lasciandosi incantare solo da ciò che viene da fuori. Come si spiegherebbe, diversamente, anche l’incuria verso la progressiva espropriazione del nostro paese, verso le sue bellezze malate? Come si spiegherebbe il gusto masochistico di disprezzare tanto splendore, senza il minimo impegno per valorizzarlo?
9 luglio 2022