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CI HANNO DISEGNATE COSI’

Vignettista, satirico e giornalista più che fumettaro, Sergio Staino muore in questi giorni richiamando alla memoria la figura di un altro fumettaro (in questo caso puro), le cui tavole sono in mostra in queste settimane al MAXXI di Roma fino a febbraio 2024: Benito Jacovitti, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita.

Entrambi ci riportano a quel tempo in cui la carta aveva un ruolo importante nella diffusione delle idee: da Il Vittorioso a Linus, dal Corriere dei Piccoli a l’Unità fino a Playmen, i due, nonostante carriere molto diverse, hanno avuto momenti di gloria soprattutto sulle colonne di giornali per ragazzi e per adulti, contribuendo a liberare la comunicazione visiva da quel pregiudizio con cui era stata bollata fino a tutta la prima metà del secolo scorso (e oltre) da una certa cultura bacchettona iconoclasta.

Ma mi soffermo su Jacovitti, al quale- mi sembra di avere capito da racconti familiari- io devo il fatto di essere venuta al mondo. Fu lui infatti che fece conoscere mio padre e mia madre, essendo tutti compagni di università negli anni del dopoguerra. Amici e colleghi disegnatori, entrambi esordienti su Il Vittorioso, Jac e mio padre non potevano essere più diversi: il primo mattatore burlone con la mania degli scherzi, il secondo accademico e serioso, che digeriva male le prese in giro.

Jac lo chiamavano Franco. Nato un anno dopo la marcia su Roma, si portava addosso quel primo nome pesante come un macigno, particolarmente negli anni del boom economico e delle prime contestazioni, quando certe tracce del passato era più prudente seppellirle.

A me metteva soggezione, nonostante la sua predisposizione agli scherzi, e forse allo stesso modo io ne mettevo a lui: mi girava quasi alla larga, non mi dava troppa confidenza. La mia ipotesi è che avesse un curioso rispetto per quei bambini a beneficio dei quali illustrava libri, giornaletti e diari scolastici (chi ha più di qualche anno non può non sapere che cos’è il Diario Vitt, da lui strepitosamente illustrato). Oppure che si sentisse lui più bambino di me, di tutti i bambini, e che fosse anche un po’ invidioso della nostra età.

Il primo Jacovitti che ho conosciuto è stato però quello che aveva creato i lievi, teneri e poetici personaggi da favola di un’antica edizione di Pinocchio (Editrice La Scuola, 1945). Niente a che vedere con le sue successive, graffianti interpretazioni del racconto di Collodi e tanto meno con le sue provocatorie, irridenti tavole affollate di folli degli anni successivi e con i cui personaggi passerà alla storia (Cocco Bill, Tom Ficcanaso, Tizio, Caio, Sempronio, salumi affettati e lische di pesce vari …) Il suo umorismo si rafforzò col tempo, forse parallelamente all’inasprirsi dell’atmosfera della seconda metà del secolo: quasi l’impegno a non prendere mai sul serio l’altrui impegno, cioè quel pretenzioso pessimismo politico degli anni sessanta e settanta.

Devo essere sincera: a fronte della considerazione “umana” di Franco, che nonostante la soggezione vedevo come una persona di famiglia a cui ero molto affezionata, non ho mai capito le sue opere. Troppe cose in poco spazio. Troppa smania di tutto. Una specie di nevrosi produttiva che non dava tregua al lettore. Come del resto non capivo le tavole di Gianni De Luca. Forse erede della seriosità e della scontrosità di mio padre, non sono mai riuscita ad apprezzare l’innocenza un po’ adolescenziale dei pupazzetti di Jacovitti, sempre un po’ scollati dal tempo, quasi espressione di una anacronistica nostalgia di altre epoche del tutto prive di coscienza storica.

E tuttavia, penso che una sua creatura sia particolarmente riuscita e che lo rappresenti anche meglio dello stesso Cocco Bill o dei suoi Kamasultra. E’ sua figlia Silvia, con cui sono cresciuta insieme, vista la frequentazione dei nostri genitori. Era il mio mito, la sorella grande che non avevo, che ne sapeva sempre una più di me, che era sempre più innocente, disarmata e dunque più sapiente di me in quanto più autorizzata di me ad essere “matta”. Maggiore di me di un paio d’anni (e in qualche cosa strepitosamente più piccola e più “giovane”), credo che Silvia incarni alla perfezione la saggezza bislacca dei personaggi di Jac, la loro affettazione di innocenza, un gigionismo bambinesco e disinvolto e una studiata follia che ancora oggi non le permettono tuttavia di ritrovarsi del tutto nella bizzarria paterna, e che pure, avendola comunque ereditata, sente il diritto/dovere di perpetuare in qualche modo, in una specie di mood felliniano liberamente reinterpretato. E’ lei peraltro che ha magistralmente curato la mostra paterna al MAXXI, è lei che gestisce le riedizioni delle opere del padre.

Certamente, come figlie di due fumettari di un altro secolo, restiamo entrambe figure disegnate e necessariamente un po’ fuori dal tempo. Noi come loro. I nostri padri non ci hanno soltanto generate, e non possiamo del tutto emanciparci, precisamente come Jessica Rabbit (“Non sono cattiva, è che mi disegnano così…”), dai tratti di matita delle mani paterne, che ci impongono di continuare il loro stile, la loro amicizia e anche la loro rivalità.

Torniamo comunque a vedere Jac al MAXXI. Chi ha meno di cinquant’anni capirà come ridevamo nell’altro secolo e come cercavamo di non vedere gli orrori intorno a noi. Quando ancora era possibile.

 

23 ottobre 2023

 

 

 

 

4 thoughts on “CI HANNO DISEGNATE COSI’

  1. Edgardo Colabelli

    Chiamare “pupazzetti” i personaggi di Jacovitti è un insulto al più grande cartoonist italiano, credo che Suo padre ne avesse una considerazione ben diversa come ce l’hanno i milioni di lettori che lo hanno apprezzato e seguito per oltre 50 anni.

    1. lauradmin

      Gentile Signor Colabelli,
      le parole isolate dal loro contesto perdono ogni significato, o rischiano di assumerne altri, del tutto diversi dall’intenzione di chi le usa. La prego, se possibile rilegga il mio pezzo integralmente. Ci sono dentro molte altre parole, tra loro legate a formare un pensiero.
      Comunque, se pure vogliamo isolarle: anche mio padre faceva “pupazzetti”. E non si sentiva affatto insultato, se glielo ricordavo. Anzi, lo riteneva un onore.
      E sono certa non si sarebbe sentito insultato neppure Jacovitti, dato il grande artista che era.
      Anche un importante compositore del secolo scorso compose un pezzo per piano intitolato così: “Pupazzetti”. E’ un piccolo capolavoro dedicato ai bambini.
      Alla fine è una bella parola, se usata e recepita senza pregiudizio. Rimanendo puri di cuore, appunto come bambini.
      La ringrazio comunque.

  2. Edgardo Colabelli

    Questo il significato della parola secondo la Treccani:
    pupazzétto s. m. [dim. di pupazzo]. – Figurina disegnata o realizzata in maniera semplice, ingenua, maldestra, per lo più da bambini
    Naturalmente ho letto tutto il Suo articolo e vorrei ricordarle che Jacovitti realizzava fumetti non solo per bambini ma anche per ragazzi ed adulti.
    Anzi la maggior parte del suo lavoro era dedicato proprio ai più grandi, non era come Topolino.
    Comunque la grandezza di questo Genio del fumetto e delle sue illustrazioni la affermano esperti come Umberto Eco, Oreste del Buono, Federico Fellini, Vittorio Sgarbi e tanti altri ma soprattutto la stima di tanti suoi colleghi italiani ed europei che lo hanno sempre considerato tra i più grandi di ogni tempo.

    1. lauradmin

      Signor Colabelli.
      Sto al suo gioco e mi soffermo sulle parole. Le segnalo allora che nel lemma Treccani “pupazzétto” da lei citato, lei ha tralasciato -non so quanto inconsapevolmente- una parte importante: “figura umana rappresentata in maniera caricaturale”. O vorrà sostenere che Jacovitti, in molte delle sue opere, non aveva intenti caricaturali?
      E ancora: Enciclopedia Treccani, la più famosa enciclopedia della lingua italiana, fu fondata in pieno ventennio fascista. La lingua evolve. Certamente anche la Treccani viene costantemente aggiornata, tuttavia vi sono “monumenti” linguistici molto più moderni che assolvono la parola killer che l’ha tanto sconvolta. In uno di questi trovo la seguente definizione: “Pupazzetto: figurina stilizzata, caricatura, personaggio stereotipato”. O vorrà sostenere che Jacovitti, in molti dei suoi “personaggi”, non aveva intenti …stereotipanti?
      Quanto sopra , ripeto, era solo per “stare al gioco”.
      Ora la parte seria.
      Quanto mi scrive mi fa sospettare che lei non abbia ancora letto il mio articolo con la dovuta attenzione. Peccato. Diversamente non si sarebbe sentito in dovere di darmi una lezione sulla lingua italiana, sulla storia del fumetto e sul valore di Jacovitti.
      Ma poiché non intendo tenere a mia volta una lezione sulla corretta lettura dei testi e sulla decodifica dei sottotesti (operazione nella quale il ricorso ai vocabolari è inutile, anzi controproducente), non mi rimane che una conclusione: il mio è davvero un pessimo articolo, visto che almeno a una persona ha comunicato l’esatto opposto di ciò che io avevo in mente.
      Mi dispiace che anche a lei, fra tanti che invece lo hanno apprezzato e compreso alla perfezione, sia capitato di leggerlo.
      Comunque gliene segnalo un altro:
      https://www.lauradeluca.net/quelli-che-il-vocabolario/
      E la ringrazio per l’attenzione.

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