Close

INTEGRAZIONE OVVERO ILLUSIONE

Per ascoltare invece di leggere:

Qualche giorno fa mi hanno chiesto come di routine un bilancio dell’anno appena trascorso. Non mi azzardo a valutazioni complessive, che ambiscano a una lettura riassuntiva di fatti diversi. Siamo troppo vicini al quadro per riuscire a vederlo nel suo insieme: una considerazione globale del passato recente è difficile e comunque scompensata. Però mi piace rispondere alla richiesta di un resoconto degli ultimi mesi ricorrendo alla tecnica “la parte per il tutto”. Un frammento di cronaca può suggerire un esame più ampio, anche se non esauriente, di molti aspetti della nostra vita recente.

E allora osservo due fotografie. Uno degli ultimi format radiofonici che ho ideato e realizzato si intitolava proprio “Fotografie”: ogni giorno sceglievo uno scatto della cronaca e lo descrivevo, ovviamente senza che gli ascoltatori potessero vederlo da nessuna parte, neppure sulla corrispondente pagina web della trasmissione. Il semplice compito di raccontare l’immagine imponeva considerazioni inedite, a riprova del fatto che anche il nostro sguardo è spesso distratto e che l’eccesso di provocazioni visive che ci circonda non ci aiuta a capire il mondo, al contrario.

Le due foto presentano due panorami di macerie, uno peggio dell’altro. Nella prima vedo il prospetto di alcune case: modeste facciate affiancate, con in un punto il tetto mezzo sfondato e cinque balconi con le balaustre pure sfondate, come per un’esplosione. Auto in primo piano e una figura maschile che esce dal portone centrale tra le varie facciate. La seconda foto è più drammatica, ma assomiglia alla prima, per clima visivo, per i colori: scorcio di una strada fra due file di palazzi, completamente coperta di rottami , lamiere, mattoni, fili elettrici pendenti. Le facciate delle case ai lati fanno sospettare abbandono precipitoso da parte degli abitanti. Un giovane uomo attraversa la strada di macerie con in spalla una bombola del gas. Immagine di grande precarietà.

Si tratta di scene di guerra, evidentemente, di due paesi non particolarmente distanti sulla carta, ma distanti per le rispettive vicende storiche e poltiche La prima foto è stata scattata nel Nagorno Karabakh, regione rivendicata dall’ Azerbaijan dove la maggiornaza della popolazione è armena, la seconda nella striscia di Gaza. Come smepre, ci sono guerre e catastrofi umanitarie maggiormente agli onori della cronaca e altre completamente dimenticate.

Nel settembre scorso roprio l’Azerbaigian ha dato il via a un’operazione militare lampo contro gli armeni del Nagorno Karabakh: una  guerra che andava avanti da 30 anni, con un bilancio complessivo di oltre trentamila morti.Migliaia di armeni negli ultimi mesi sono fuggiti dalle loro case per pauraa di violenze e discriminazioni di da parte delle forze dell’Azerbaijan. Sono tensioni che iniziano ai tempi di Stalin, quando  il territorio del Nagorno Karabakh, con la stragrande maggirnaza di armeni,  fu assegnato all’Azerbaijan. Negli anni la convivenza tra la comunità azera e quella armena si è fatta sempre più difficile. Come si vede il caso Ucraina non è il solo.

Della situazione nella strisica di Gaza abbiamo più notizie. Sappiamo che la popolaizone anche ivile è perseguitata dalle forze israeliane in seguito all’attacco dell’ottobre scorso da parte di Hamas Oggi i morti soprattutto a Gaza e tra i civili sono arrivati a decine di migliaia, la stesa quantità che si registra nel Nagorno Karabah nell’arco di trent’anno. Le Nazioni Unite hanno parlato di “rischio genocidio del popolo palestinese”.

Genocidio, catastrofe umanitaria, pulizia etnica. Parole che pensavamo di avere dimenticato, che credevamo ormai inattuali,  nel 23° anno del XXI secolo, vista la nota dominante di questi tempi,ovvero  la globalizzazione, il mondo unificato dal web e dalla tecnologia, livellato dal mercato globale, aspirante alla pace tra le nazioni… Era un’illusione. Da una parte ci sono le sirene del mondo globale, dall’altra le identità nazionali, etniche o religiose che rivendicano continuamente le proprie autonomie o infastidiscono i piani imperialistici mai sopiti dei poteri forti

E poi dicono che noi italiani siamo “campanilisti”, capace di creare contrapposizioni pretestuose tra un paesino e il paesino confinante, fra un condomino e l’altro. L’ansia di individuazione è più forte e più resistente di quanto potessimo immaginare e tradisce in fin dei conti la nostalgia di contrapposizione che segna la storia geopolitica del mondo dalla caduta del muro di Berlino in poi.

Un mondo diviso in due era comodo da pensare, e quel modello sembra avere segnato le coscienze di tanti, nel bene o nel male: o come progetto di emancipazione politico-ideologica dalle due dittature dominanti (socialismo o capitalismo che fosse), o come smania di recupero delle proprie più remote e più antiche radici etniche, magari per troppi anni represse in un calderone culturale troppo vasto e anonimo.

E’ come se quel modello est/ovest ci avesse insegnato l’unico schema di stare al mondo: differenziandoci gli uni dagli altri. Altro che melting pot, altro che pacifiche convivenze e integrazioni. Laddove i popoli,  per amore o per forza si mescolano, risorge l’esigenza di differenziarsi, anche con la forza e con le armi. Che presto o tardi diventa odio. Che presto o tardi viene usato e incoraggiato da chi trae spunto e vantaggio dal vecchissimo assioma: divide et impera. Un mondo diviso è più comodo. Anzi, inevitabile. Se ne facciano convinti i predicatori di pace.

 

5 gennaio 2024

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *